Capitolo 5
Nella suite della clinica del
centro di addestramento, Luchas, figlio di Lohstrong, giaceva supino in un
letto d'ospedale con il busto e la testa sollevati sui cuscini. Il suo corpo spezzato
era disteso davanti a lui, un po' come un paesaggio crivellato da bombe, cicatrici
e pezzi mancanti che trasformavano ciò che in precedenza funzionava bene e in
maniera appropriata in un miscuglio di doloroso, debilitante malfunzionamento.
La sua gamba sinistra era il
problema più grande.
Fin da quando era stato tratto in
salvo da quel barile in cui i lesser l'avevano
imprigionato, lui stava vivendo un periodo di "riabilitazione."
Parola strana per quello che realmente
gli stava accadendo. La definizione ufficiale, come aveva scoperto cercandola su
un tablet, era ripristinare in qualcuno o qualcosa il precedente stato di normale
funzionamento.
Dopo tanti mesi di ginnastica e terapia
occupazionale, tuttavia, si sentiva sicuro nell'affermare che tutto quello scervellarsi
mentalmente e fisicamente in piena notte non lo stava avvicinando al vecchio se
stesso più di quanto non si potesse far tornare indietro il tempo. Aveva solo
alcune certezze: soffriva come un cane; non riusciva ancora a camminare; e le quattro
pareti di quella camera d'ospedale, che erano tutto quello che aveva visto da
quando era stato imprigionato in quella immobilità soffocante. Tutto questo lo
stava facendo impazzire.
Non per la prima volta, si chiese come
la sua vita si fosse ridotta a questo.
Il che era stupido. Conosceva i
fatti, oh, li conosceva talmente bene. La notte degli assalti, gli assassini si
erano infiltrati nella casa della sua famiglia, come avevano fatto con tanti
altri. Avevano massacrato il padre e la sua mahmen,
e fatto lo stesso a sua sorella. Quando erano arrivati a lui, avevano deciso di
risparmiargli la vita in modo da usarlo come cavia, un test per scoprire se un
vampiro poteva essere trasformato in un lesser.
Dopo averlo reso impotente, lo avevano chiuso in un barile e immerso nel sangue
dell'Omega.
Non c'era stato alcun test, comunque.
Avevano perso interesse, o lo avevano dimenticato, oppure era venuto fuori qualche
altro risultato.
Impossibilitato a liberarsi, aveva
sofferto in quel denso vuoto nero, ancora in vita ma a malapena vivo, in attesa
che il suo destino si compisse, per un tempo che aveva percepito come
un'eternità.
Non sapendo se in qualche modo fosse
stato trasformato.
La sua mente, un tempo motivo di
grande orgoglio per i suoi successi scolastici e le capacità, si era
paralizzata come il suo corpo, contorcendosi su se stessa, quelli che una volta
erano chiari percorsi di pensiero si aggrovigliavano in un incubo oscuro di paranoia
e terrore.
E poi suo fratello, quello per cui
non aveva mai avuto tempo da dedicargli, quello che aveva guardato dall'alto in
basso, quello a cui si era sempre sentito così superiore... era diventato il
suo salvatore.
Qhuinn, l'aberrazione con un occhio blu e l'altro verde, la
vergogna della famiglia con quel mostruoso difetto, colui che era stato sbattuto
in mezzo a una strada e che non si trovava in casa quando c'era stato l'attacco, era l'unica ragione per cui era riuscito a liberarsi.
Quel maschio si era rivelato essere
il membro più forte della discendenza, viveva e lavorava con la Confraternita
del pugnale nero, combatteva con onore, difendendo la razza contro il nemico
con distinzione.
Mentre Luchas, l'ex ragazzo d'oro, l'erede
di una casata che non esisteva più... ora era lui quello imperfetto.
Era forse il karma?
Sollevò la mano ormai straziata, fissando
i monconi che erano tutto ciò che rimaneva di quattro delle sue cinque dita.
Possibile.
Il bussare alla porta era leggero,
e mentre inalava, colse i profumi presenti dall'altra parte. Preparandosi, tirò
le lenzuola più in alto sul suo petto scarno.
L'Eletta Selena non era sola, come lo
era stata la scorsa sera.
E sapeva di cosa si trattava.
«Entrate» disse con una voce che
ancora stentava a riconoscere come propria. Da quando era cominciato il calvario,
il suo timbro era diventato roco, più profondo.
Qhuinn entrò per primo, e per un istante,
Luchas si ritrasse. Ogni volta che aveva visto suo fratello in precedenza, il
maschio indossava abiti civili. Non stasera.
Era chiaramente venuto fresco
dal teatro del conflitto, il suo corpo potente ricoperto di pelle nera, armi
legate ai fianchi, alle cosce... al petto.
Luchas aggrottò la fronte quando
notò due particolari strumenti da combattimento: suo fratello aveva un paio di
pugnali neri sullo sterno, le maniglie verso il basso.
Strano, pensò. Sapeva che queste lame
erano riservate ai soli membri della Confraternita del pugnale nero.
Forse ora avevano concesso di
indossarli anche ai loro soldati?
«Ehi» esclamò Qhuinn.
Alle sue spalle, l'Eletta Selena
era silenziosa come un fantasma, la sua veste bianca fluttuava intorno al corpo
esile, i capelli scuri acconciati in alto sulla testa nello stile tradizionale
del suo ordine sacro.
«Buonasera, padrone» disse con un elegante
inchino.
Fissando la sua gamba, Luchas desiderò
disperatamente di poter scendere dal letto e mostrarle il rispetto che le era
dovuto. Non era un'opzione. L'arto era, come sempre, avvolto stretto in garza
bianca dalla punta del piede fino al ginocchio, e sotto quella copertura
sterile? Carne che non sarebbe guarita, il calore dell'infezione che sobbolliva
come una pentola d'acqua al limite dell'ebollizione.
«Mi dicono che hai smesso di nutrirti» affermò
Qhuinn.
Luchas distolse lo sguardo, desiderando
che ci fosse una finestra in modo da fingersi distratto.
«Allora?» domandò Qhuinn. «È vero?»
«Eletta» mormorò Luchas. «Gentilmente,
ci concedete un momento da soli?»
«Naturalmente. Attenderò la vostra
chiamata.»
La porta si chiuse silenziosamente.
E Luchas si accorse che tutto l'ossigeno nella camera sembrava essersene andato
con la femmina.
Qhuinn mise una sedia vicino al comodino
e si sedette, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Le spalle erano così ampie che la giacca di pelle scricchiolò
in segno di protesta.
«Cosa sta succedendo, Luchas?»
chiese.
«Non era una cosa importante,
poteva aspettare. Non saresti dovuto rientrare dal combattimento.»
«Non secondo i tuoi segni vitali.»
«Quindi è stata la dottoressa a
richiamarti, vero?»
«Me ne ha parlato, sì.»
Luchas chiuse gli occhi. «Io avevo...»
Si schiarì la gola. «Prima di tutto questo, avevo un'idea di quello che avrei
voluto fare, di come sarebbe stato il mio futuro. Io stavo per...»
«Stavi per diventare come nostro
padre.»
«Sì. Volevo... tutte le cose che mi
erano state insegnate e che definivano una vita che valesse la pena di essere
vissuta.» Sollevò le palpebre e fissò il suo corpo. «Questo non ne fa parte.
Questo... sono come un bambino. Qualcuno si occupa dei miei bisogni, portandomi
cibo, lavandomi, asciugandomi. Sono un cervello intrappolato in un contenitore
rotto. Non so badare a me stesso -»
«Luchas -»
«No!» scattò con gesto della mano
mutilata. «Non provare a rabbonirmi con promesse di una salute futura. Sono
passati nove mesi, fratello mio. Preceduti da una prigionia nell'inferno che è
durata un secolo. Non ce la faccio più a sentirmi un prigioniero. Basta, ho
chiuso.»
«Non puoi suicidarti.»
«Lo so. Allora io non entro il Fado.
Ma se non mangio e non mi nutro, questa» conficcò un dito nella sua gamba - «lo
farà al posto mio, portandomi via. Non è suicidio. È morte per sepsi - non è
quello che preoccupa maggiormente Doc Jane?»
Con un movimento brusco, Qhuinn si
tolse la giacca e la lasciò cadere sul pavimento. «Io non voglio perderti.»
Luchas si coprì il volto con le
mani. «Come puoi volerlo... dopo tutte le crudeltà che hai subito in casa
nostra...»
«Non sei stato tu. Erano i nostri
genitori.»
«Io ho partecipato.»
«E sei perdonato.»
Almeno aveva fatto una cosa giusta. «Qhuinn, lasciami andare. Ti
prego. Lasciami... andare.»
Il silenzio che seguì durò talmente a lungo che il respiro di
Luchas si alleggerì, sicuro che la sua richiesta fosse stata accettata.
«So cosa si prova a non avere speranza» disse Qhuinn con
asprezza. «Ma il destino è capace di sorprenderti.»
Luchas lasciò cadere le braccia e rise
amaramente. «Non in senso buono, temo. Non in senso buono -»
«Ti sbagli -»
«Smettila -»
«Luchas. Ti sto dicendo -»
«Sono un invalido, cazzo!»
«Come lo sono stato io.» Qhuinn
indicò i propri occhi. «Per tutta la vita.»
Luchas si voltò, posando lo sguardo
sulla parete color crema. «Non c'è niente che tu possa dire per convincermi,
Qhuinn. È finita. Sono stanco di lottare per una vita che non voglio.»
Un altro silenzio teso. Alla fine,
Qhuinn imprecò tra i denti. «Hai solo bisogno di nutrirti e riprendere le forze
-»
«Io rifiuterò sempre la sua vena. Faresti
meglio ad accettare la mia decisione adesso e non sprecare ulteriore tempo con
argomenti che non trovo convincenti. Ho chiuso.»
* * *
Mentre Selena attendeva nel
corridoio, la stanchezza la avvolse in pesanti drappi non meno reali solo
perché invisibili. E comunque si sentiva ansiosa. Giocherellava con la veste, i
capelli, le mani.
Non le piaceva il tempo che non
veniva investito nei suoi doveri. Con niente a tenerla occupata, i suoi
pensieri e le paure diventavano troppo intensi per contenerli dentro il cranio.
Eppure lei immaginava ci fosse un utilità
in questa solitudine. Se fosse riuscita a prendere una posizione per trarne
vantaggio.
Quel che doveva fare mentre aspettava
lì fuori era esercitarsi nel suo commiato. Doveva provare a comporre le parole
che avrebbe voluto dire prima che non avesse più tempo. Doveva trovare il
coraggio necessario per esternare ad alta voce quello che aveva nel cuore.
Stava per seguire l'impulso di dire
addio a Trez.
Tra le molte persone che avrebbe
lasciato, il Primale e le sue sorelle Elette, i Fratelli e le loro shellan, Trez era l'unico per cui già
soffriva. Anche se non lo vedeva da... molte, molte notti.
Anche se non era più stata sola con
lui da... molti, molti mesi.
Infatti, dopo aver concluso la loro...
relazione, o quello che era, lui se n'era andato dalla magione. Non importava
che lei andasse e venisse, non lo aveva mai incontrato faccia a faccia, e solo
occasionalmente aveva intravisto le sue grandi spalle mentre si avviava nella direzione
opposta alla sua.
Che la evitasse era stato un sollievo
infido in un primo momento. Sarebbe stato più difficile lasciarlo, e lo sarebbe
stato ancora di più se avessero continuato a vedersi. Ma ultimamente, mentre il
tempo a sua disposizione diminuiva drasticamente, lei aveva deciso che aveva
bisogno di dirgli...
Beata Vergine Scriba, cosa stava
per dirgli?
Selena lasciò scorrere lo sguardo
lungo il corridoio, come se quel piccolo, perfetto monologo potesse scorrere
con docilità, a un ritmo abbastanza lento da poterlo memorizzare.
Per quanto ne sapeva, lui aveva
dimenticato i momenti passati insieme. Per sua stessa ammissione, era esperto nel
trovare passatempi femminili nella varietà umana.
Non c'era dubbio che avesse fatto
tabula rasa.
E poi c'era la realtà che lui era
stato promesso a un'altra.
Selena si prese la testa tra le
mani. Per tutta la sua vita, aveva trovato conforto e uno scopo nel suo sacro
compito - per cui era stato uno shock scoprire che mentre si avvicinava sempre
più al momento della sua morte, l'unica cosa che si sentiva di far bene era il
suo commiato da un uomo che non le apparteneva. Con cui aveva avuto una storia
di brevissima durata.
C'erano state molte notti che aveva
passato nella sua camera da letto su a Grande Camp, cercando di convincersi che
quello che era successo con Trez era pura follia, ma ora che il tempo stava per
scadere? Una strana lucidità si concentrò in lei. E non importava il perché.
Importava solo che lei raggiungesse l'obiettivo di dirgli ciò che provava prima
di morire.
Non voleva avvicinarsi a lui troppo
presto, però - sarebbe stato piuttosto imbarazzante sviscerare la propria anima
a una persona indifferente e poi indugiare per notti, settimane, mesi.
Se solo la sua fine fosse avvenuta
in una data precisa, come se fosse la scadenza su un cartone di latte -
Qhuinn uscì dalla stanza d'ospedale,
e l'espressione tesa sul suo volto duro spazzò via la sua preoccupazione.
«Mi dispiace tanto» mormorò lei.
«Si rifiuta ancora?»
«Non riesco a convincerlo.»
«La volontà di vivere può essere complicata.»
Selena allungò la mano e gliela poggiò sulla spalla. «Sappiate che io sono qui
per entrambi. In qualsiasi momento cambiasse idea, io verrò.»
«Tu sei davvero una femmina di
valore.»
La strinse in un rapido, duro
abbraccio e poi corse giù lungo il corridoio, come se volesse lasciare la
struttura. Ma poi si fermò davanti alla porta chiusa della sala visite
principale della dottoressa Jane. Dopo un momento, entrò.
Mentre pregava ci fosse una
soluzione per i due fratelli, un'altra ondata di stanchezza la investì, una più
grossa di quello che l'aveva travolta davanti a Tohrment, strisciando
attraverso il suo corpo, facendole appoggiare una mano contro il muro per paura
di cadere. Il panico la sopraffece, il suo cuore pestava selvaggiamente nel
petto, la testa era inondata di fai
questo, fai quello, scappa. Cosa sarebbe successo se quello fosse stato un
attacco? E se fosse il suo ultimo -
«Ehi, stai bene?»
Forzando i suoi occhi vuoti a
voltarsi verso il suono, vide Tohrment uscire dalla sala visite.
«Io...»
All'improvviso, la sensazione di
vertigine scomparve, come se l'avesse avvicinata un rapinatore che, confrontandosi
con il Fratello, aveva riconsiderato il suo attacco.
Sotto la tunica, lei sollevò una
gamba e poi l'altra, non trovando alcun cenno della resistenza fatale che la
terrorizzava a morte.
«Selena?» esclamò Tohr dirigendosi
verso di lei.
Appoggiandosi al muro, la sua mano
corse allo chignon, e si accorse di avere la fronte madida di sudore.
«Credo di dovermi occupare di me
stessa al Santuario.» Espirò. «Mi riprenderò lì. È necessario.»
«È un'idea eccellente. Ma sei
sicura di riuscire a - »
«Sto bene.»
Chiudendo gli occhi, Selena si
concentrò e...
... con una rotazione dell'asse
terrestre e una scossa alle molecole del suo cervello, invece di quelle del
corpo, si smaterializzò e si ricompattò nel sacro luogo di pace della Vergine
Scriba.
All'istante, proprio come se avesse
succhiato direttamente da una vena, il suo corpo si alleggerì e fortificò, ma
la sua mente non seguì l'esempio - nonostante il verde brillante delle foglie
degli alberi e dei fili d'erba, le tinte pastello dei tulipani perennemente in
fiore, il luminoso marmo bianco del dormitorio, il Tesoro, il Tempio delle Scrivane
Segregate, lo Stagno dei Riflessi, si sentiva braccata anche se era chiaramente
al sicuro.
Inoltre, soffrire di una malattia
mortale della durata indefinita rendeva difficile riconoscere la differenza tra
i sintomi che rientravano nella dicitura "normale", e quelli di
maggiore rilevanza.
Per un po' rimase nello stesso
punto in cui era arrivata, temendo, muovendosi, di innescare la manifestazione della
propria malattia. Ma alla fine, cominciò a passeggiare. La temperatura dell'aria
ferma era perfetta, né troppo calda né troppo fredda, il cielo al di sopra
brillava di un azzurro fiordaliso, le terme risplendevano sotto la strana luce circostante...
e si sentì come se fosse sola in un vicolo buio nel centro di Caldwell.
Quanto tempo? si chiese. Quante
altre passeggiate avrebbe potuto godersi?
Tremando, si strinse nella veste mentre
un consueto senso di tristezza e d'impotenza irruppe dentro lei, le schiacciò il
petto, rendendole difficile respirare. Ma non si arrese alle lacrime. Le aveva versate
tutte qualche tempo prima, tutti i perché-io,
i cosa-succederebbe-se, e ho-bisogno-di-più-tempo erano terminati
- prova che ci si abituava anche all'acqua bollente se ci stava dentro abbastanza
a lungo.
Era venuta a patti con la realtà che
non solo non le era stata concessa una vita completa, ma non avrebbe vissuto per
niente - per cui, sì, doveva decidersi a salutare per sempre Trez. Lui era ciò che
più si avvicinava a qualcosa che poteva definire suo, una scelta personale al
posto di un'imposizione, un qualcosa che aveva conquistato, anche se per poco
tempo, non un compito che le era stato assegnato.
Nel dirgli addio, Selena
riconosceva che parte della sua vita le era appartenuta.
Lo avrebbe contattato il giorno
seguente.
Al diavolo l'orgoglio...
Dopo un po', si accorse che i piedi
l'avevano condotta al cimitero, e data la direzione dei suoi pensieri, non ne
era sorpresa.
Le Elette erano essenzialmente creature
immortali, create molto tempo prima come parte di programma di procreazione della
Vergine Scriba dove i maschi più forti si accoppiavano con le femmine più
intelligenti per garantire la sopravvivenza della specie. In principio, le
femmine fertili venivano messe in quarantena lì, con il Primale come unico
maschio a servirle per l'inseminazione. Tuttavia, col passare dei millenni, il
ruolo delle Elette si era evoluto in modo da servire spiritualmente la Vergine Scriba,
documentare la storia della Razza svoltasi sulla Terra, adorare la Madre della specie,
e fungere da fonti di sangue per i membri della Confraternita senza compagne - per
le quali alcuni avevano abbandonato il proprio ruolo, accettando la mortalità in
cambio dell'amore, della libertà, della possibilità di generare bambini che non
sarebbero stati condannati da rigide tradizioni.
E poi era arrivato l'attuale
Primale, rinnovando anche le tradizioni più antiche.
Selena guardò attraverso il traliccio
ad arco del cimitero; le statue di marmo delle sue sorelle si stagliavano
minacciose nonostante fossero a una certa distanza e nascoste nei loro verdi confini.
Per tutto ciò di buono che l'antico
programma di procreazione aveva fatto, ne era risultato anche qualcosa di infido,
una prigione da cui, per quanto il Primale fosse di mentalità aperta, non
poteva liberare Selena e le sue sorelle.
Nascosta nel profondo delle cellule
delle Elette, giaceva una debolezza critica latente, un difetto creatosi
proprio a causa del gruppo limitato di creature prescelte per la procreazione per
rendere i vampiri invincibili.
Un sacrificio al fine di
raggiungere la forza. La prova che la Madre della Razza poteva essere, e
sarebbe stata, limitata da Madre Natura.
Le statue dall'altro lato la
riempivano di terrore. Le eleganti figure all'interno del terreno circoscritto in
realtà non erano di pietra - non nel senso che erano state scolpite da blocchi.
Erano il corpi congelati di coloro che hanno sofferto dalla sua stessa malattia.
Erano i cadaveri delle sue sorelle che
aveva percorso il sentiero calpestandolo con i propri piedi, irrigidite in pose
di loro scelta, sigillate in un bel intonaco minerale che, insieme alle curiose
proprietà atmosferiche del Santuario, li avrebbe preservati per l'eternità.
Il tremore la invase di nuovo come un'onda
-
- e ancora una volta, si interruppe.
Questa volta, però, la cessazione non
accompagnava un ritorno alla normalità.
Come se la vista di quei corpi paralizzati
all'ultimo stadio fosse una sorta di ispirazione nei confronti di ciò che l'affliggeva,
le giunture più ampie della parte inferiore del suo corpo si bloccarono, seguite
dalla spina dorsale, i gomiti, il collo, i polsi. Si paralizzò completamente,
immobile ma del tutto consapevole, il suo cuore che continuava a battere, gli
occhi limpidi, la mente iperattiva in preda al panico.
Con un grido, provò a liberarsi di
tutto, cercò di piegare le gambe, combatté per spostare i piedi, le braccia, tutto.
Ci fu un lieve cedimento sul lato
sinistro, e che la sbilanciò. Dopo uno sbandamento e una giravolta, cadde a terra
a faccia in giù, i sottili fili di erba le entrarono nel naso, nella bocca, negli
occhi. Sapendo che rischiare di soffocare, mise tutta la forza che aveva per voltare
la testa di lato in modo che le vie respiratorie fossero libere.
E quello si rivelò essere il suo l'ultimo
movimento.
Dal suo punto di osservazione, era
una telecamera rovesciata, la curiosa angolazione del Santuario sembrava come
proiettata su uno schermo: fili d'erba in primo piano grandi come alberi, con il
tempio dello Stagno dei Riflessi in lontananza, di cui si vedeva solo il tetto.
«Aiuto...» gridò. «Aiuto...»
Lottando contro le proprie ossa,
provò a ricordare l'ultima volta che aveva visto ogni delle sue sorelle da
quelle parti. Era stato...
Troppe notti prima. E anche allora,
nessuno si era avventurato fino a questo punto del paesaggio, il cimitero veniva
visitato di rado, e la zona esterna veniva
usata per i sacri riti di commemorazione - che non sarebbero avvenuti per molti
mesi.
«Aiuto!»
Con una spinta immane, Selena
combatté contro il proprio corpo. Ma tutto ciò che si vide fu una contrazione
della mano, le dita scivolarono sul prato.
E questo fu tutto.
Le lacrime le inondarono gli occhi,
il cuore martellava incessantemente e, per assurdo, lei desiderò non aver mai che
chiesto una scadenza...
Dal profondo delle sue emozioni, l'immagine
del volto di Trez - gli occhi neri a mandorla, i capelli rasati neri, la pelle
scura - si compose nella sua mente.
Avrebbe dovuto dirgli addio prima.
«Trez...» gemette contro l'erba.
Mentre la sua coscienza si affievoliva,
fu una porta che si chiudeva dolcemente, ma con fermezza, bloccando il mondo
intorno a lei...
... tanto che non si accorse, qualche
tempo dopo, della piccola, silenziosa la figura che le si avvicinò da dietro,
fluttuava sull'erba, una luce splendente fuoriusciva al di sotto della tunica
nera ondeggiante.
Sto per piangere ç.ç sia per Luchas che per Selena...Grazie mille per l'aggiornamento sei un mito come sempre continua così!! <3<3<3 -Alessia
RispondiEliminaGrazie a te, Alessia. È stato un capitolo tostissimo per emozioni, intensità, e quel cavolo di Stagno dei Riflessi che non ricordavo e che, dopo 4 ore, ho trovato nel libro di V.
EliminaAllora non sono stata l'unica a pensare "Da quando c'è un Stagno dei Riflessi??!" LOL XDD Si un sacco di emozioni intense e contrastanti tra loro, Zia Ward sta mettendo alla prova la nostra sanità mentale ad ogni capitolo che scrive *w* ed io sono ben lieta di impazzire *-*
EliminaAlla prox settimana continua così! Un bacione <3 -Alessia
molto bello e molto triste grazie come sempre ciao tvb
RispondiEliminaSelena se la caverà. Garantito. Susanna
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