mercoledì 20 maggio 2015

Capitolo 7 di THE SHADOWS di J.R. Ward



Capitolo 7



In piedi davanti al lungo specchio della sua camera da letto, Layla cercò di sistemarsi addosso quella che avrebbe dovuto essere una mantella morbida, ma drappeggiare le numerose pieghe sul suo ventre era come chiedere a un plaid di coprire un letto king size.

Abbassò lo sguardo. Non riusciva più a vedersi i piedi, e per una volta nella sua vita, i suoi seni erano grandi abbastanza da creare un vero solco sotto la sua veste.

Data la sua ampiezza, era difficile credere che le mancassero ancora parecchi mesi per portare a termine la gravidanza.

Perché i vampiri non potevano essere più simili gli esseri umani? Quelle creature inferiori impiegavano solo nove mesi. La sua specie? Almeno diciotto.

Con sguardo da sopra la spalla, si controllò nello specchio della credenza. Secondo i vari programmi sulla gravidanza umana che aveva visto in televisione, avrebbe dovuto sentirsi raggiante. Avrebbe dovuto gioire dei cambiamenti del proprio corpo e accogliere il miracolo del concepimento, della crescita, e infine del parto.

Certo che gli esseri umani appartenevano proprio a una razza diversa.

L'unico aspetto positivo ricevuto da questa esperienza - che senza dubbio era l'unica cosa che contava davvero- era che il suo bambino era attivo e apparentemente in buona salute. I controlli regolari con la dottoressa Jane avevano indicato che tutto procedeva alla perfezione, le tappe fondamentali erano giunte e passate, le varie fasi arrivate e andatesene con grazia.

E questo riguardava gli aspetti positivi. Tutto il resto? Ma anche no, grazie. Detestava la nausea che la colpiva ogni santa volta che si metteva in piedi. I grossi meloni incassati nel suo petto che le rendevano difficile respirare. Il gonfiore alle caviglie e alle mani che trasformava gli arti sinuosi in tronchi d'albero. Poi c'erano gli ormoni in fermento...

Che le facevano venire voglia di fare cose che le femmine incinte non dovrebbero fare.

Soprattutto visto con chi avrebbe voluto farle -

«Basta. Adesso smettila.»

Si prese la testa tra le mani e lottò contro il lancinante senso di colpa che era stato la sua ombra quegli ultimi mesi, plasmandosi addosso come la propria pelle, pesante come una cotta di maglia.

A differenza della gravidanza, al cui termine il disagio e la preoccupazione sarebbero cessati, non ci sarebbe stato alcun conforto con l'altra situazione. Nessun evento da portare a compimento, almeno non uno che avrebbe portato gioia.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, e lei aveva fatto la sua scelta.

Arrivò alla porta della sua camera e la socchiuse, attenta a scorgere il rumore di passi. Voci. Gli aspirapolvere in funzione. Quando non sentì più nulla, uscì nella galleria delle statue e guardò a sinistra e a destra. Una rapida occhiata al suo orologio le disse che aveva circa un'ora e mezza prima che il sorgere dell'alba la costringesse a rientrare alla magione della Confraternita.

Una volta fuori dalla camera avrebbe voluto correre, ma riusciva a malapena a camminare a passo svelto mentre si dirigeva verso l'ala del personale.

Aveva pianificato il suo percorso verso l'uscita in precedenza e in maniera funzionale, era molto brava a gestire i dettagli. Le ci volevano sei minuti per scendere le scale posteriori ed entrare in garage. Due minuti per raggiungere l'auto che le avevano messo a disposizione e con cui usciva regolarmente dicendo alla gente che andava a "schiarirsi le idee."

Sedici minuti di viaggio costeggiando i terreni coltivati a est della città.

Due minuti a piedi fino che al campo con l'acero al centro.

Dove l'avrebbe aspettata -

«Layla?»

Lei incespicò nei suoi piedi mentre si voltava. Blay era all'inizio della galleria delle statue in tenuta da combattimento, con i pantaloni imbrattati e il volto esausto.

«Ah - ciao» rispose. «Sei di ritorno dal campo di battaglia?»

«Stai per uscire?» Blay aggrottò la fronte. «È tardissimo.»

«Faccio solo un giretto in auto» esclamò rilassata. «Sai, per schiarirmi le idee.»

Beata Vergine Scriba, odiava mentire.

«Beh, sono contento di averti incontrata prima che uscissi. Qhuinn non se la passa bene.»

Layla si accigliò avvicinandosi al guerriero. Il padre della sua bambina era una delle persone più importanti nella sua vita, al pari di Blay. Quella coppia era la sua famiglia. «Perché?»

«Luchas.» Blay sganciò il fodero del pugnale dal petto. «Si rifiuta di nutrirsi e Qhuinn non sa più cosa fare.»

«È stato quasi un mese fa.»

«Di più.»

Di solito, se un vampiro maschio in salute si abbeverava alla vena di un'Eletta, potevano trascorrere tranquillamente diversi mesi tra un nutrimento e l'altro, a seconda dell'attività svolta, dallo stress, e dal quadro di salute generale. Tuttavia, per qualcuno malato come Luchas? Molto più di una settimana o due potevano trasformarsi velocemente in una condanna a morte.

«Dov'è Qhuinn adesso?»

«Giù nella sala da biliardo. Mi hanno richiamato prima dalle strade perché...» Blay scosse la testa. «Già, non se la sta passando bene.»

Layla chiuse gli occhi e poggiò una mano sulla pancia. Doveva andare. Doveva restare...

«Devo fare una doccia.» Blay guardò la porta della stanza che divideva con Qhuinn. «C'è la possibilità che tu possa stare un po' con lui fino a quando non arrivo?»

«Oh, sì, certo.»

Blay allungò una mano e le strinse spalla. «Avrò bisogno del tuo aiuto con lui. Questa storia sta diventando...»

«Lo so.» Layla si tolse il cappotto e non si preoccupò di riportarlo nella sua stanza. Lo lasciò cadere sul pavimento di fronte alla propria porta. «Adesso scendo giù.»

«Grazie. Dio, ti ringrazio.» Si abbracciarono per un istante e poi lei si allontanò con la sua andatura a papera diretta alla scalinata e dal maschio che le aveva dato il dono inestimabile del bambino che portava in grembo.

Non c'era nulla che non avrebbe fatto per Qhuinn o per il suo hellren.

Comunque, era conscia del maschio che la stava aspettando in quel momento sotto quell'albero di acero, fuori in quel campo.

La sua coscienza la tormentava, soprattutto mentre passava davanti alla doppia porta aperta dello studio del re. Attraverso la porta regale, vide il trono dietro la grande scrivania intagliata... e ricordò perché aveva sancito il patto che aveva stretto.

Aveva venduto il proprio corpo al capo della Banda dei Bastardi affinché tutti lì alla magione fossero al sicuro. Tuttavia l'accordo non era ancora stato consumato per via della sua gravidanza - il che l'aveva sorpresa in un primo momento. Xcor era un brutale guerriero, non solo di nome ma di fatto, in realtà faceva del male agli altri - godendone. Eppure con lei, sembrava contento di prendersi il suo tempo prima di riscuotere ciò che gli era dovuto.

Si erano incontrati regolarmente sotto quell'albero per parlare. O a volte semplicemente per stare seduti in silenzio, con i suoi occhi che le scivolavano lungo il corpo come se...

Beh, a volte pensava che lui sembrava acquisire forza solo guardandola, come se la connessione visiva fosse una specie di vena da cui aveva bisogno di abbeverarsi a intervalli specifici.

Altre volte, lei sapeva che la immaginava nuda - allora ripeteva a se stessa che avrebbe dovuto sentirsi offesa da questo. Avrebbe dovuto esserne spaventata.

Preoccupata.

Ultimamente, però, una strana curiosità che lo riguardava si era radicata sotto la paura, una curiosità legata al suo corpo possente, agli occhi socchiusi... alle labbra, sebbene quello superiore fosse rovinato...

Era tutta colpa dei suoi ormoni - e cercò di non soffermarsi sulle brame. L'unica cosa che doveva tenere a mente era che fino a quando lei avesse continuato a incontrarlo, lui aveva giurato su tutto ciò che per lui rappresentava l'onore che non avrebbe fatto irruzione nel complesso.

Dopotutto, l'unica ragione per cui lui conosceva la posizione del loro quartier generale, era a causa sua. 

Indirettamente, forse, ma si sentiva come se quella falla nella sicurezza fosse solo colpa sua.

L'intero accordo rappresentava un patto con il diavolo, eseguito per far sì che le persone a cui lei teneva fossero al sicuro. Lei odiava le bugie, la doppia vita, il senso di colpa... e la paura che prima o poi avrebbe dovuto onorare le sua parte dell'accordo.

Ma non c'era nulla che potesse fare.

E stasera, la sua famiglia aveva la precedenza sul suo inganno.


*    *    *


Giù nella sala visite principale del centro di addestramento, Trez stava vivendo un'esperienza extracorporea mentre il vorticoso spostamento si fermava e ancora una volta lui dovette ricalibrare la sua posizione. Grazie a Dio erano tornati tutti interi. Ora, se solo ci fosse stato qualcuno in grado di aiutarli.

Cullando tra le braccia il corpo rigido e contorto di Selena, lanciò un'occhiata oltre la sua spalla. La dottoressa Jane, la shellan di V, era in piedi da un lato in completa tenuta da medico: camice blu, guanti in gomma nitrilica verde, scarpette ai piedi. Però non si avvicinò a Selena. Rimase dov'era a fissarli, per un tempo che a lui parve un'eternità.

Merda. Trez non ne capiva di medici, ma in generale, quando qualcuno con un enorme "Dottor" scritto davanti al proprio nome vedeva per la prima volta un paziente, non doveva effettuare una visita completa?

Non era un buon segno.

Rhage e V erano al lato opposto, e allo stesso modo fissavano inebetiti lui e Selena, come se anche loro non avessero nessun idea su come poter essere d'aiuto.

La dottoressa Jane si schiarì la gola. «Trez...?»

«Chiedo scusa, cosa ha detto?»

«Mi lasci darle un'occhiata?»

Trez aggrottò la fronte. «Certo - prego.» Quando la dottoressa Jane non si mosse, Trez cominciò a perdere la pazienza. «Quale diavolo è il problema-»

«Hai snudato le zanne e stai ringhiando. Ecco qual è il problema.» Fece un rapido autoesame e scoprì che -caspita, in effetti si era trasformato in Cujo, con il peso del corpo infossato sulle cosce abbassate, sfoderando l'attrezzatura in dotazione, e ringhiando come se avesse un tagliaerba industriale nel retro della gola.

«Già, mi dispiace.» A quel punto, si accorse anche che era indietreggiato con la schiena in un angolo e teneva Selena stretta al petto come se qualcuno stesse cercando di portargliela via. «Quindi dovrei metterla sul tavolo.»

«Sarebbe un buon punto di partenza» sottolineò V.

Il suo corpo si prese il suo tempo con calma mentre lui dava il comando di muoversi avanti, e alla fine, solo il fatto che lei aveva bisogno di cure per mano di qualcuno che avesse anche solo mezzo cervello e uno stetoscopio lo convinse a raggiungere il centro della stanza. 

Abbassandosi, la allungò sul piano di acciaio inossidabile - e lui rabbrividì perché era come spostare una sedia di legno: il corpo di Selena rimase nella stessa posizione in cui lui l'aveva trovato, le gambe tese, il tronco contorto, le braccia rannicchiate al petto. E la cosa peggiore? La testa era rimasta voltata in quella brutta angolazione, ritorta nella direzione opposta alle spalle come se stesse soffrendo un enorme dolore.

La sua mano tremava mentre le scostava i capelli dal viso. Aveva gli occhi aperti, ma non era sicuro che lei fosse cosciente. Non sembrava concentrarsi su niente, di tanto in tanto dei lenti battiti di ciglia erano l'unica indicazione che lei era sveglia.

Che era ancora viva.

Trez abbassò il viso all'altezza dei suoi occhi. «Sei al centro di addestramento. Adesso loro ti...»

Quando la sua voce s'incrinò, ordinò a se stesso di mettere una dannata distanza da quel tavolo e lasciare che la dottoressa Jane facesse il suo lavoro.

Incrociando le braccia sul petto, marciò all'indietro fino a quando sentì una mano pesante sulla sua spalla. Era Rhage. E Trez era abbastanza sicuro che il gesto fosse in parte compassione, in parte l'assicurarsi che il maschio legato in lui non decidesse di afferrare di nuovo le redini.

«Lasciali lavorare» disse Hollywood mentre Ehlena, che era sia la shellan di Rehv che l'infermiera, irruppe nella stanza. «Vediamo cosa abbiamo.»

Trez annuì. «Va bene. Sì.»

Il buon dottore si chinò e scrutò gli occhi opachi di Selena. Qualunque cosa le avesse detto a voce troppo bassa per poterla sentire, ma il ritmo di Selena nel battere le palpebre era cambiato - anche se era difficile capire se era un bene o un male.

Pressione sanguigna. Battito. Reazione delle pupille. I primi tre controlli si svolsero in fretta, ma Jane non sprecò tempo nell'annunciare i risultati. Lei e la sua infermiera continuavano a lavorare velocemente, misurarono la temperatura di Selena, le inserirono una flebo sul dorso della mano, perché le curve dei gomiti erano bloccate.

«Voglio farle un elettrocardiogramma, ma non riesco a posizionare gli elettrodi sul petto» disse la dottoressa Jane. Poi guardò oltre la spalla verso il suo compagno. «Sai di qualche sindrome che causa questi effetti? È come un attacco epilettico che irrigidisce tutto il corpo, solo le pupille restano reattive.»

«No. Vuoi che chiami Havers per un consulto?»

«Sì. Per favore.» Quando V uscì dalla stanza, Jane scosse la testa. «Ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel suo cervello, ma non abbiamo né un apparecchio per la risonanza magnetica né per la tomografia assiale computerizzata.»

«Quindi dobbiamo portarla da Havers» esclamò Trez.

«Neanche lui possiede quell'attrezzatura tecnologica.»

«Cazzo.» Quando la presa di Rhage si strinse su di lui, Trez si focalizzò sul volto di Selena. «Sta soffrendo? Non voglio che lei soffra.»

«Devo essere onesta?» disse il dottore. «Non lo so. E fino a quando non capirò qualcosa sul stato neurologico, non ho intenzione di imbottirla di farmaci che potrebbero inibirle le funzioni. Ma mi muoverò più veloce che posso.»

Sembrò volerci un'eternità, il tempo si fermò completamente mentre tutto quello che lui poteva fare era guardare il complicato andirivieni medico intorno a quel tavolo. E Rhage rimase accanto a lui, nei panni di una sentinella con funzioni di babysitter mentre Trez cavalcava gli estremi del Me La Sto Facendo Sotto e Voglio Farmi Saltare Le Cervella senza alcuna grazia.

E poi l'Eletta Cormia spalancò la porta.

Nell'istante in cui la femmina vide Selena, ansimò e portò entrambe le mani alla bocca. «Beata Vergine Scriba...»

La dottoressa Jane distolse lo sguardo dal prelievo di sangue che stava effettuando sul dorso della mano di Selena. «Cormia, sai cosa potrebbe avere-»

«Lei ha la malattia.»

Tutti si paralizzarono. Eccetto Cormia. L'Eletta corse al fianco della sorella e accarezzò i capelli scuri di Selena, sussurrandole parole nell'Antico Idioma.

«Quale malattia?» domandò la dottoressa Jane.

«La traduzione dall'Antico Idioma è grossomodo 'l'Arresto'.» L'Eletta si asciugò gli occhi. «Lei ha l'Arresto.»

Trez sentì la propria voce fendere il silenzio. «Che cos'è?»

«Ed è trasmissibile?» intervenne Jane.


6 commenti:

  1. ok tutto bene grazie come al solito ci vediamo mercoledì ti dirò la storia si fa interessante ciao tvb

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  2. Caspita è già finito il capitolo, peccato. Grazie baci

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  3. Ne vogliamo sempre di piùù!! Bravissima continua così!

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  4. Ma povero Trez! Grazie Christiana: sei fantastica! Susanna

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  5. Peccato che sia stato cosi corto, ma e stato bello e non vedo l'ora che continui, purtroppo so già alcune cose....:(

    PS: Cristina sei bravissima !! complimenti

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