mercoledì 29 ottobre 2014

Invidia!!!

Ragazze mie,

volevo condividere con voi questa IMMENSA gioia: IL RE è arrivato!

Ecco la mia foto. Stamane ho bloccato la commessa della libreria e l'ho costretta a tirarne fuori una copia prima ancora di esporli perché, povera lei, non aveva ancora avuto tempo!

Ma dico, con la Zietta si trova sempre il tempo, è d'OBBLIGO!

Comunque io ce l'ho, scambiamoci pure i nostri pensieri al riguardo e, qualora qualcuno non lo avesse ancora preso e volesse qualche altro capitolo in traduzione, commenti pure questo post e provvederò.
Io ho tradotto solo il 27°, però, perché sicura che tutte voi abbiate avuto la vostra fetta di Paradiso, esattamente come me.

Un bacio a tutte.

Christiana V

mercoledì 22 ottobre 2014

Capitolo 26 di THE KING di J.R. Ward



The King


26


Saxton si guardò nello specchio dello spogliatoio, afferrò le estremità del farfallino e le annodò insieme. Quando lasciò andare la seta adornata, il papillon mantenne forma e simmetria come un cucciolo bene addestrato.

Facendo un passo indietro, lisciò i capelli appena tagliati e indossò il suo cappotto invernale di cashmere di Marc Jacobs. Tirò prima una manica e poi l'altra, infine allargò le braccia in modo che i gemelli ai polsini sotto la giacca del completo fossero visibili.

Non erano quelli con lo stemma di famiglia.

Quelli non li indossava più.

No, questi erano dei gemelli di Van Cliff & Arpels degli anni quaranta, in platino, zaffiri e diamanti.

"Ho già messo il profumo?" Guardò le sue bottiglie di Gucci, Prada e Chanel ben allineate sul vassoio a specchio con le maniglie in ottone. "Nessun commento da parte vostra?"

Diede una veloce annusata a un polso. Sì, era Égoïste quello che indossava, e l'aveva appena messo.

Voltandosi, attraversò il pesante pavimento in marmo venato color panna e entrò nella sua camera da letto bianco-su-bianco. Avvicinandosi al letto, ebbe l'istinto di rifarlo daccapo, ma erano i nervi a farlo agire in quel modo.

"Solo una ricontrollata."

Sprimacciò i cuscini e sistemò il copriletto nell'esatta posizione in cui era prima che lui si vestisse, lanciò un'occhiata alla sveglia vintage di Cartier sul comodino.

Non poteva più rimandare.

Eppure guardò ancora una volta la chaise lounge bianca e le poltrone dello stesso colore. Ispezionò i tappeti in mohair bianchi. Incamminandosi, si assicurò che il Jackson Pollock sul camino fosse perfettamente allineato.

Questa non era la sua vecchia casa, quella in stile vittoriano in cui Blay aveva trascorso una giornata. Era l'altra, una villetta  a un piano di Frank Lloyd Wright che aveva acquistato non appena era stata messa in vendita - e perché non avrebbe dovuto comprarla? Ne erano rimaste talmente poche sul mercato.

Naturalmente aveva dovuto effettuare delle ristrutturazioni e degli ampliamenti clandestini del seminterrato, ma era ormai da molto tempo che i vampiri avevano trovato i loro metodi per aggirare gli umani e i loro fastidiosi ispettori edili.

Controllando di nuovo il suo Patek Philippe, si chiese il perché di quel terribile pellegrinaggio. Ancora una volta.
Era come un orrendo Giorno della Marmotta. Ma perlomeno non accadeva con grande regolarità.

Mentre risaliva le scale, era vagamente consapevole di sistemare nuovamente il papillon. Aprì la porta che collegava il seminterrato alla zona superiore ed entrò in una raffinata cucina anni quaranta completa di moderne riproduzioni perfettamente funzionanti di elettrodomestici identici a quelli della sitcom I Love Lucy.
Ogni volta che attraversava la casa col suo mobilio Jetsons e l'assoluta mancanza fronzoli, si sentiva come se si trovasse nell'America del secondo dopoguerra - e la cosa lo calmava. Gli piaceva il passato. Gli piacevano le differenti impronte delle varie epoche. Gradiva vivere in posti quanto più possibile autentici.

E non era intenzionato a tornare presto in quella casa vittoriana. Non dopo che, in pratica, era iniziata lì la storia tra lui e Blay.

Uscendo dalla porta principale, Saxton pensò al maschio e sentì una stretta al petto - e si fermò, concentrandosi sulla sensazione, sui ricordi che l'accompagnavano, sul cambio di pressione sanguigna e sul corso dei pensieri.

Dopo che si erano lasciati, che era accaduto sotto sua istigazione, aveva letto parecchio sul dolore. Le fasi. il processo. Ed era stato buffo... stranamente, la miglior risorsa era stata un libricino che aveva trovato e che parlava di come superare la perdita di un animale da compagnia. Conteneva domande a cui si presumeva si dovesse rispondere riguardo ciò che il cane aveva insegnato o quello che mancava di più del gatto o ancora quali sono stati i più bei momenti col tuo pappagallo.

Non l'avrebbe mai ammesso con nessuno, ma aveva risposto ad ognuna di quelle domande sul suo diario riferendosi a Blay - e farlo l'aveva aiutato. Fino a un certo punto. Dormiva ancora da solo, e anche se aveva ripreso a fare sesso, invece di fare tabula rasa e ricominciare daccapo, la situazione lo faceva soffrire ancora di più.

Ma le cose andavano meglio di prima. Almeno il suo principio operativo era per metà normale: per le prime due notti era stato un morto vivente. Ora, invece, la ferita aveva formato una crosta e mangiava e dormiva.

Però capitavano ancora situazioni capaci d'innescare certi meccanismi - ad esempio ogni volta che doveva vedere Blay o Qhuinn.

Era così difficile essere felici per colui che amavi... quando quel qualcuno stava con un altro.

Tuttavia, come in ogni aspetto della vita, c'erano cose che potevi cambiare e altre invece no.

Riguardo a quello...

Chiuse gli occhi, si smaterializzò e riprese forma su un prato ricoperto di neve grande quanto un parco cittadino - e altrettanto curato. D'altronde suo padre odiava tutto ciò che non era ordinato: piante, erba, objets d'art, mobili... figli. L'immensa villa padronale più avanti si estendeva su una superficie di millequattrocento metri quadrati, diverse ali erano state aggiunte da generazioni di umani. Guardandola avvolta dalla notte invernale, Saxton si ricordò dell'esatta motivazione per cui il padre l'aveva acquistata quando alcuni ex allievi l'avevano lasciata all'Union College - si trattava del Vecchio Continente nel Nuovo Mondo, una casa lontana dalla terra natia.

Da tradizionalista, suo padre aveva apprezzato il ritorno alle origini. Non che le avesse mai davvero abbandonate.
Mentre si avvicinava all'ingresso principale, entrambe le fiammelle nelle lampade a gas ai lati dell'imponente portone tremolarono, investendo di una luce antica le lavorazioni in pietra scolpite nel diciannovesimo secolo come espressione dello stile neogotico. Quando si fermò, Saxton pensò che forse non avrebbe dovuto suonare il campanello, perché i domestici lo stavano attendendo. 

Loro, come suo padre, si affrettavano sempre a farlo entrare e uscire da casa - come se lui fosse un documento da elaborare o una cena da servire e dopo sparecchiare in tutta fretta.

Eppure nessuno aprì il portone in anticipo.

Allungandosi, Saxton tirò una catena in ferro rivestita di velluto per far suonare il campanello.

Non ci fu risposta.
Accigliandosi, lui fece un passo indietro e guardò di lato, senza scoprire nulla. C'erano troppi cespugli ultra curati per riuscire a vedere all'interno di qualcuna di quelle vetrate a piombo.

Restare chiuso fuori casa rappresentava l'esatta testimonianza del rapporto che aveva col padre, giusto? 
Il maschio gli aveva chiesto di tornare per il suo compleanno e poi l'aveva lasciato fuori al freddo davanti al portone.

In realtà, al momento attuale, Saxton aveva deciso che la sua esistenza era un gran vaffanculo a suo padre. Da ciò che aveva capito, Thym aveva sempre desiderato un bambino - un figlio, per essere esatti. Aveva pregato la Vergine Scriba pur di averne uno. E il suo desiderio era stato esaudito.

Sfortunatamente, c'era stata una condizione che aveva decretato un insuccesso.

Proprio mentre si chiedeva se dovesse bussare ancora, il portone venne aperto dal maggiordomo. La faccia del doggen era glaciale come al solito, ma il fatto che non si inchinasse dinanzi al primo e unico figlio del suo padrone la diceva lunga sull'opinione che avesse nei confronti di chi stava lasciando entrare in casa.

Non era stato sempre così in quella casa. Ma sua madre era morta, e poi il suo piccolo segreto era venuto a galla, quindi...

"Vostro padre al momento è impegnato." E basta. Niente Posso-prendere-il-cappotto?, Come state?, o ancora, Fa piuttosto freddo questa notte, nevvero?

Per lui non si sarebbero sprecate nemmeno due chiacchiere sul tempo.

Il che andava bene. Non gli era mai importato di quel tizio, in ogni caso.

Quando il maggiordomo si fece di lato, concentrandosi sulla parete rivestita in seta di fronte a sé, passare davanti a quello sguardo fisso fu come essere colpito da una recinzione elettrificata - almeno a quello Saxton era abituato. E poi conosceva la strada.

Il salottino della padrona era a sinistra, e quando entrò nella stanza vezzosa, si mise le mani nelle tasche del cappotto. Le pareti color lavanda e il tappeto giallo limone erano luminosi e allegri, e la verità era che, anche se farlo entrare in quella stanza rappresentava un insulto, la preferiva molto di più all'equivalente maschile rivestita in legno dall'altra parte dell'ingresso.

Sua madre era morta da tre anni, ma quella camera non rappresentava un mausoleo preposto alla perdita. In realtà, Saxton non credeva che al padre mancasse la moglie.

Thym era sempre stato più attratto dalla legge - anche in questioni relative alla glymera -

Saxton si bloccò, voltandosi verso la parte posteriore della stanza.
In lontananza, si sentirono delle voci confuse - e quello era inconsueto. L'intera casa di solito era silenziosa come una biblioteca, la servitù camminava in punta di piedi, i doggen comunicavano tra di loro attraverso un complesso sistema di segnali con le mani che avevano messo a punto per non disturbare il padrone.

Saxton si avvicinò alle altre porte. A differenza di quelle che conducevano all'ingresso, queste erano chiuse.
Socchiudendo un battente, Saxton scivolò  nella austera stanza a pianta ottagonale in cui suo padre teneva i tomi rilegati in pelle che riguardavano le Antiche Leggi. Il soffitto era alto quasi dieci metri, le modanatura di tutti quegli scaffali erano in mogano scuro, le cornici al di sopra delle porte erano intagliate con dei rilievi rappresentanti immagine gotiche - o almeno delle riproduzioni del diciannovesimo secolo.

Al centro di quello spazio circolare, c'era un enorme tavolo rotondo col piano in marmo che... lo scioccò.

Era pieno di libri aperti.

Guardando le mensole in alto, vide dei vuoti tra i volumi allineati. All'incirca una ventina.

Un allarme gli risuonò alla base del cranio, tenne le mani in tasca e si allungò per leggere le frasi esposte in bella vista...

"Oh, Gesù..."

Successione.

Suo padre stava studiando le leggi che riguardavano la successione.

Saxton sollevò la testa in direzione delle voci. Erano più forti adesso che si trovava in questa stanza, anche se ancora smorzate da un altro paio di doppie porte.
Quale che fosse questo incontro stava avvenendo nello studio privato di suo padre.

Altamente insolito. Il maschio non lasciava mai entrare nessuno lì - non permetteva neanche ai clienti di entrare in casa.

Si trattava di una cosa seria - e Saxton non era uno stupido. C'era una cabala contro Wrath nella glymera e, ovviamente, suo padre era coinvolto.

Non c'era motivo di preoccuparsi del futuro Re se non si puntava a prendere di mira quello attualmente sul trono.
Saxton girò intorno al tavolo, posando lo sguardo su ogni pagina aperta. Più leggeva, più si allarmava.

"Oh… merda," sussurrò in una delle sue rare imprecazioni.

Male. Molto male…

Il rumore di una porta che si apriva nello studio gli diede una scossa. Correndo sulla punta dei mocassini, tornò nel salottino della padrona e, senza fare rumore, richiuse i battenti alle sue spalle.

Se ne stava di fronte al John Singer Sargent sopra il camino quando il maggiordomo lo chiamò un paio di minuti dopo.

"Ora può ricevervi."

Inutile buttare lì un grazie. Si limitò a seguire il doggen sulla scia della sua disapprovazione - e si preparò a riceverne ancora da parte di suo padre.

Di solito detestava andare lì.

Ma non quella sera. No, quella sera aveva uno scopo ben più grande che contrastare quello che si preannunciava come l'ennesimo tentativo paterno di umiliarlo per costringerlo a rigare diritto.


*    *    *


Purrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.

Trez aggrottò la fronte a quel suono. Dischiudendo un occhio, vide suo fratello ritto accanto al letto con in braccio il gatto nero Boo, e un'espressione di disapprovazione negli occhi di ghiaccio.

Gli occhi di suo fratello, non del gatto.

"Conti di battere la fiacca un'altra notte" sbottò iAm.

Non era una domanda, dunque perché disturbarsi a tirar fuori una risposta.

Rizzandosi a sedere con un gemito, Trez dovette puntellarsi sulle braccia per tenere il busto in verticale.

A quanto pareva, mentre lui era fuori servizio, il mondo si era trasformato in un hula hop e il pianeta girava vorticosamente intorno al suo collo.

Alzando bandiera bianca, si lasciò ricadere sul materasso.

Quando suo fratello rimase lì rigido, Trez capì che quella era la sirena che lo richiamava alla realtà. E voleva rispondere, sul serio. Ma il suo corpo era a secco di carburante.

"Quando è stata l'ultima volta che ti sei attaccato a una vena?" pretese di sapere iAm.

Trez lo guardò ed eluse la domanda. "Da quando sei diventato un amante degli animali?"

"Odio questo maledetto gatto."

"Si vede."

"Rispondi."

Il fatto che non riuscisse nemmeno a ricordare quando aveva… no, buio più assoluto.

"Ti mando qualcuno," borbottò iAm. "Poi io e te dobbiamo parlare."

"Parliamo adesso."

"Perché? Così dopo potrai fingere di non aver capito bene?"

Beh, quella sì che era un'idea. "No."

"Se la prenderanno con nostro padre e nostra madre."

Trez si tirò di nuovo su, e stavolta senza bisogno di aiuti aggiuntivi. Merda. Avrebbe dovuto aspettarselo dalla s'Hisbe, ma…

"In che modo?"

"Secondo te?" Suo fratello smise di grattare delicatamente le orecchie del gatto nero e passò sotto al mento. "Cominceranno con lei."

Trez si sfregò la faccia. "Gesù Cristo. Non mi aspettavo che l'alto sacerdote fosse così…"

"Non era lui. Nah. Lui è stato la seconda persona che è passata a trovarmi ieri sera."

"Che ore sono?" Anche se il fatto che potesse vedere fuori dalle finestre che era notte rispose almeno in parte alla domanda. "Perché non mi hai svegliato quando sei arrivato a casa?"

"Ci ho provato. Tre volte. Avevo in mente di mandarti un carrello emergenze, se non ti svegliavi adesso."

"Allora, cos'ha detto l'alto sacerdote?"

"È di s'Ex che dobbiamo preoccuparci."

Trez abbassò le mani. Fissò suo fratello; doveva aver capito male, per forza. "Chi, scusa?"

"Non c'è bisogno di ripeterlo, quel nome, giusto?"

"Oh, Dio." Cosa cavolo credeva di fare il sicario della regina andando a trovare suo fratello? D'altronde…

"Stanno proprio alzando la posta di brutto, vero?"

iAm si sedette sul bordo del letto, il materasso s'infossò sotto al suo peso. "Siamo al dunque, Trez. Basta fingere, basta persuasione. Hanno usato la carota; ora useranno il bastone."

Trez pensò ai suoi genitori, ricordava a malapena i loro volti. L'ultima volta che li aveva visti era stata… beh, ecco un'altra cosa che non ricordava. Un ricordo però era nettissimo. Gli appartamenti in cui vivevano. Marmo ovunque. Infissi d'oro. Tappeti di seta. Domestici dappertutto. Gioielli appesi alle lampade per creare un effetto scintillante.

All'inizio non era così - e quella era un'altra cosa che ricordava: era nato in un modesto trilocale in un angolo sperduto della corte - abbastanza grazioso secondo i normali standard.

Niente a che vedere con quello che avevano ottenuto quando avevano venduto il suo futuro.

Dopo di che? Mentre loro salivano i gradini della scala sociale, ottenendo il meglio del meglio, lui era stato cresciuto dal personale della regina, in solitudine in una stanza bianca. Soltanto quando si era rifiutato di mangiare e di bere per diverse notti di fila gli avevano mandato iAm.

Ecco come era iniziato il loro rapporto disfunzionale.

Da allora? In qualche modo, iAm si era assunto la responsabilità di portarlo avanti.

"Ti ricordi quando li abbiamo visti l'ultima volta?" si scoprì a chiedere.

"A quel ricevimento. Sai, quello in onore della regina."

"Oh… giusto." I loro genitori erano seduti con i Primari della regina, come venivano chiamati. Al centro e in prima fila. Tutti sorridenti.

Non avevano riconosciuto né lui né iAm, quando erano entrati, ma non era un fatto insolito. Una volta venduto, Trez era diventato di proprietà della regina. E, una volta arruolato per appianare le cose, nemmeno iAm era più appartenuto a loro.

"Non si sono mai voltati indietro, vero?" mormorò Trez. "Io sono solo una merce per loro. E, cavolo, hanno spuntato un ottimo prezzo."

iAm rimase in silenzio, come al suo solito. Rimase seduto lì, ad accarezzare quel gatto.

"Quanto tempo mi rimane?" chiese Trez.

"Devi andare stanotte." Due occhi scuri si spostarono su di lui. "Cioè subito."

"E se non lo faccio…" Inutile rispondere, e iAm non lo fece: se non si alzava dal letto per consegnarsi, i suoi genitori sarebbero stati massacrati. O peggio.

Probabilmente molto peggio.

"Quei due sono parte integrante del sistema," disse. "Hanno ottenuto esattamente ciò che volevano."

"Allora non ci andrai."

Una volta rimesso piede nel Territorio, non avrebbe mai più rivisto il mondo esterno. La guardia della regina lo avrebbe rinchiuso in quel labirinto di corridoi e tenuto sottochiave per trasformarlo nell'equivalente maschile di un harem, separandolo perfino da suo fratello.

E nel frattempo, i suoi genitori avrebbero continuato a vivere, incuranti.

"Lei mi ha guardato," borbottò. "La sera del ricevimento. Ha puntato gli occhi nei miei - e mi ha rivolto quel sorrisetto di superiorità. Come se avesse fatto tutte le mosse giuste, col vantaggio supplementare di non avermi più tra i piedi. Che razza di madre fa una cosa così?"

"Quindi li lascerai morire."

"No."

"Allora ritornerai lì."

"No."

iAm scosse la testa. "O una cosa o l'altra, Trez. Lo so che sei incazzato con loro, con la regina, con centomila altre cose. Ma ormai siamo arrivati al bivio, e ci sono solo due possibilità. Ficcatelo bene in testa - e io tornerò lì con te."

"No, tu resterai qui." Mentre la sua testa confusa tentava di mettere insieme le variabili, il suo cervello era tutto un lavorio, ma niente lampi di genio. "E poi non ho intenzione di andare."

Merda, aveva bisogno di nutrirsi prima di provare ad affrontare la faccenda.

"Cazzo, quel sangue umano fa proprio schifo," biascicò massaggiandosi le tempie, come se quella frizione potesse dare un'impennata al suo Quoziente Intellettivo. 

"Sai cosa? Adesso non posso proprio parlarne - e non perché voglio fare lo stronzo. È che non riesco a pensare, nel vero senso della parola."

"Ti mando qualcuno." iAm si alzò e andò alla porta che separava le loro suite. "Poi però devi prendere una decisione. Hai due ore."

"Mi odierai," sbottò Trez.

"Per loro?"

"Già."

La risposta si fece attendere a lungo. Poi il gatto smise di fare le fusa, le mani di iAm si immobilizzarono intorno al suo collo.

"Non lo so."

Trez annuì. "É giusto."

La porta era già chiusa e suo fratello era già lontano quando il cervello di Trez tirò fuori un ehi–aspetta–un–attimo.

"Non Selena," gridò Trez. "iAm! Ehi! Non Selena!"


Già non si fidava di quello che poteva farle quando gli diceva bene - l'ultima cosa che gli serviva al momento era starle vicino.

mercoledì 15 ottobre 2014

Capitolo 25 di THE KING di J.R. Ward



The King


25


"Wrath!"

Urlando il nome del marito, Beth si sollevò di scatto dai cuscini e per un momento non realizzò dove si trovasse. Le pareti in pietra e la preziosa trapunta in velluto non erano -

La casa di Darius. La camera non era quella di suo padre, ma quella che usava Wrath quando gli serviva un posto dove poter riposare. La stessa in cui si era spostata perché non riusciva ad addormentarsi.

Doveva essere crollata sul piumone alla fine -

Un telefono squillò a distanza.

Scostando i capelli dal viso, Beth scoprì di avere appoggiata sulle gambe una coperta che non ricordava d'aver tirato su... la sua valigia nella stanza... e un vassoio d'argento sul comodino.

Fritz. Il maggiordomo doveva essersi presentato durante il giorno.

Massaggiandosi lo sterno, guardò il cuscino vuoto di fianco al suo, le lenzuola perfette, la mancanza di Wrath - e si sentì peggio della notte precedente.

E pensare che credeva che avessero toccato il fondo. Oppure che starsene un po' da sola l'avrebbe aiutata -

"Merda, Wrath?" sbraitò, saltando giù dal letto.

Corse verso la porta e la spalancò, si lanciò nel corridoio dal soffitto basso e arrivò nella stanza del padre, tuffandosi sul telefono su uno dei comodini.

"Pronto! Pronto? Pronto... ?"

"Ciao."

Al suono di quella voce profonda, Beth crollò sul letto, stringendo la cornetta con forza e spingendola verso l'orecchio, come se in quel modo potesse far arrivare il suo uomo da lei.

"Ciao." Beth chiuse gli occhi e non si curò di trattenere le lacrime, le lasciò cadere. "Ciao."

La voce di Wrath era brusca quanto la sua. "Ciao."

Ci fu un lungo silenzio, che andava bene: anche se lui era a casa mentre lei era lì, era come se si stessero abbracciando.

"Mi dispiace," disse lui. "Mi dispiace sul serio."

Beth si lasciò sfuggire un singhiozzo. "Ti ringrazio..."

"Mi dispiace." Wrath fece una risatina. "Non sono proprio eloquente, vero?"
"Va bene così. Neanche a me va di parlare... stavo sognando te, credo."

"Un incubo?"

"No. Mi mancavi."

"Non me lo merito. Avevo paura che se ti avessi chiamata al cellulare non mi avresti risposto. Ho pensato che forse, se ci fosse stato qualcuno con te, avrebbe potuto rispondere e... sì, mi dispiace."

Beth sospirò allungandosi sui cuscini. Incrociò le gambe alle caviglie e lasciò scivolare lo sguardo sulle foto che la ritraevano. "Sono nella sua stanza da letto."

"Davvero?"

"Non c'è il telefono in quella che usavi tu."

"Dio, è passato un secolo da quando sono stato in quella casa."

"Già. Fa ricordare tante cose."

Puoi scommetterci."

"Come sta George?"

"Gli manchi." Si sentì un tonfo soffocato - la mano di Wrath che batteva sul fianco del cane. "È proprio qui accanto a me."

La buona notizia era che disquisire su argomenti neutri era il modo perfetto per approcciarsi l'uno all'altra. Ma la discussione più importante continuava a incombere minacciosa.

"Quindi la testa di John è a posto," disse lei, tormentando l'orlo della camicetta. "Ma saprai già che tutto è andato bene all'ospedale."

"In realtà, no. Veramente sono stato... un po' sfasato."

"Ho chiamato."

"Davvero?"

"Sì. Tohr mi ha detto che stavi dormendo. Sei riuscito a riposare?"

"Ah... sì."

Wrath tacque, quel secondo silenzio era di tipo preparatorio, che indicava lo scandire del conto alla rovescia verso l'argomento più scottante. Eppure, Beth non era sicura di come inserire il discorso, cosa dire, come -

"Non credo di averti mai parlato molto dei miei genitori." cominciò Wrath. "A parte del fatto che furono..."

Uccisi, concluse Beth al posto suo nella propria mente.

"Erano anime gemelle, per usare un termine umano. Voglio dire, anche se ero un bambino, ricordo loro due insieme, e suppongo che la verità sia che, quando sono morti, ho pensato che quell'intesa fosse finita con loro. Come se il loro fosse il tipo di amore che accade una volta ogni mille anni, o una roba del genere. Ma poi ti ho incontrata."

Le lacrime di Beth erano calde mentre scorrevano lungo le guance, alcune caddero sul cuscino, altre scivolarono nell'orecchio. Allungò una mano e afferrò un Kleenex e asciugò il viso senza fare alcun rumore.

Ma Wrath sapeva che lei stava piangendo. Doveva saperlo per forza.

La voce di Wrath divenne sottile, come se faticasse a mantenere la compostezza. "Quando mi hanno sparato, quella notte, un paio di mesi fa, e Tohr e io trascinammo i nostri culi fuori dalla casa di Assail, non avevo paura di morire o roba del genere. Certo, sapevo che era una brutta ferita, ma non era la prima volta che mi trovavo nella merda - e sapevo che ce l'avrei fatta... perché niente e nessuno potrà portarmi via da te."

Stringendo il telefono nell'incavo del collo con la spalla, Beth ripiegò il fazzoletto bagnato in piccoli quadrati. "Oh, Wrath..."

"Se penso a te incinta..." La sua voce si spezzò. "Io... io... io, oh merda, continuo a cercare le parole giuste, ma non riesco a trovarle, Beth. Non ci riesco e basta. So che vorresti provare ad avere un bambino, lo capisco. Ma tu non hai vissuto quattrocento anni in cui hai visto e sentito come le vampire muoiono di parto. Io non posso - nel senso che non riesco a togliermelo dalla testa, capisci? E il problema è che sono un vampiro innamorato, per cui mentre vorrei darti ciò che desideri, c'è una parte di me che non vuole sentir ragioni. Per niente - non quando è in ballo la tua vita. Vorrei essere diverso, perché questa cosa mi sta uccidendo, ma non posso cambiare quel che sono."

Girandosi su un lato, Beth prese un altro fazzoletto dalla scatola. "Ma esiste la medicina moderna. Abbiamo la dottoressa Jane e -"

"E poi, se il bambino nascesse cieco? Cosa succederebbe se avesse i miei occhi?"

"Amerei lui o lei nello stesso identico modo, te lo assicuro."

"Chiediti a cosa li stiamo esponendo in termini genetici, almeno. Io riesco a cavarmela, certo. Ma se credi anche solo per un istante che la vista non mi manchi, ti sbagli di grosso. Mi manca ogni santo giorno. Mi sveglio di fianco alla femmina che amo e non posso vedere i suoi occhi la sera. Non so come stai quando ti fai bella per me. Non posso guardare il tuo corpo quando sono dentro di te -"

"Wrath, tu fai già così tanto -"

"E la cosa peggiore di tutte? Non posso proteggerti. Non posso neanche lasciare la casa - e questo ha a che fare tanto col mio fottuto lavoro quanto con la cecità - oh, e non illuderti. Legalmente, se avremo un figlio maschio, dovrà succedermi al trono. Lui non avrà scelta - come non l'ho avuta io ed è una situazione che detesto. Odio ogni notte della mia vita - Gesù, Beth, odio alzarmi dal letto, odio quella cazzo di scrivania, odio i proclami e le altre stronzate e odio essere rinchiuso in questa casa del cazzo. Lo odio."

Dio, Beth sapeva che Wrath non era felice della propria vita, ma non aveva idea che il disagio avesse radici tanto profonde.

D'altronde, quando era stata l'ultima volta che avevano parlato in questo modo? Col tran tran quotidiano che faceva il paio con lo stress dovuto alla Banda dei Bastardi e alle loro stronzate...

"Non lo sapevo." Beth singhiozzò. "Voglio dire, sapevo che eri scontento, ma..."

"Non mi va di parlarne. Non voglio che ti preoccupi per me."

"Ma mi preoccupo comunque. So che sei stato sotto stress - e vorrei poterti aiutare in qualche modo."

"È questo che intendo. Non c'è alcun rimedio, Beth. Nessuno può fare niente - e anche se avessi una vista perfetta e i rischi della gravidanza fossero una sciocchezza, non vorrei comunque scaricare questa merda sulla prossima generazione. È una crudeltà che non affibbierei neanche al mio peggior nemico, figurati a mio figlio."  Wrath rise aspramente. "Diamine, dovrei lasciare che Xcor si prenda quel maledetto trono. Gli starebbe bene."

Beth scosse la testa. "Tutto ciò che io voglio è che tu sia felice." In realtà non era così. "Ma non posso mentire. Ti amo, eppure..."

Ragazzi, adesso aveva un'idea di come si sentiva lui nel non riuscire a trovare le parole adatte.

Eppure Wrath aveva trovato una maniera per parlare.

"Quasi non riesco a spiegarlo." Lei portò un pugno sul cuore. "È come se avessi un vuoto al centro del mio petto. Non ha niente a che fare con te o quello che provo per te. È dentro di me - come un pulsante che si è attivato, capisci? E vorrei riuscire a spiegare meglio di così, è difficile da descrivere. Non sapevo neanche che esistesse... fino a che non feci da babysitter una di quelle notti in cui Z e Bella andarono al nostro appartamento per starsene un po' da soli. Me ne stavo nella loro suite con Nalla che dormiva tra le mie braccia e continuavo a guardare tutta la roba che avevano in quella camera. Il fasciatoio, le giostrine sospese, la culla... tutte le salviette umidificate, i biberon e i ciucci. E pensavo... voglio anch'io tutto questo. La pattumiera per i pannolini sporchi, le paperelle di gomma, lo stare sveglia tutte le giornate. La cacca e il profumo dell'ora del bagnetto, i pianti e le coccole, i classici rosa e azzurro - andava benissimo sia maschietto che femminuccia. E, ascolta, ci ho riflettuto bene. Davvero. È stato un tale shock che ho pensato - è uno sbalzo d'umore, una fase, una rosea illusione che prima o poi passerà."

"Quando..." Wrath si schiarì la gola. "Quando è successo?"

"Più di un anno fa."

"Dannazione..."

"Come ho detto, per un po' di tempo mi sono sentita in questo modo. E pensavo che tu avresti cambiato idea. Sapevo che non era una priorità per te." Stava provando a essere diplomatica. "Ho pensato... beh, ora che lo sto dicendo mi sono resa conto che non te ne ho mai parlato. Non ce n'è stato il tempo."

"Mi dispiace. So di essermi già scusato, ma... maledizione."

"Non importa." Lei chiuse gli occhi. "E so perfettamente come ti senti. Non è che non ti abbia visto ogni notte con in viso l'espressione di chi voleva trovarsi in qualunque altro posto tranne dove invece stava."

Ci fu un altro lungo silenzio.

"C'è un'altra cosa," disse lui dopo un istante.

"Cosa?"

"Credo che presto entrerai nel tuo bisogno."

Anche se Beth era rimasta a bocca aperta, qualcosa nel profondo della sua mente si accese. "Io... come fai a saperlo?"

L'umore altalenante. La voglia di cioccolato. L'aumento di peso...

"Merda," disse lei. "Io, ah... oh, merda."


*    *    *


Eeeee diciamo che quella parola riassumeva bene il tutto, pensò Wrath appoggiandosi allo schienale della sedia alla scrivania della biblioteca. Ai suoi piedi, George se ne stava sdraiato sul tappeto con l'enorme testone appoggiato su uno degli stivali di Wrath, quasi a offrirgli supporto.

"Non posso esserne certo." Wrath si massaggiò la tempia dolorante. "Ma come tuo compagno, subirò l'influsso dei tuoi ormoni non appena si attiveranno - mi eccito più facilmente, le emozioni si amplificano, divento molto più suscettibile. Ad esempio, ora non sei in casa, giusto? E mi sento molto più me stesso di quanto mi sia sentito nelle ultime due settimane. Ma mentre litigavamo ero fuori di testa."

"Due settimane... è proprio quando ho cominciato ad andare a trovare Layla. E sì, eri davvero fuori di testa."

"Ora" - Wrath le puntò contro l'indice anche se Beth non era fisicamente di fronte a lui - "questa non è una scusa per il mio comportamento, serve solo a contestualizzarlo, posso parlare con te al telefono come in questo momento e contenermi a sufficienza in modo da potermi spiegare. Se mi sei vicina, invece, e ripeto, non è una scusa né tantomeno colpa tua, ma mi chiedo se non abbia giocato una parte decisiva in quello che è successo."

Quando Wrath si allungò di lato e poggiò la mano sul cane, George alzò la testa, l'annusò e gli diede una leccatina. Accarezzandogli il lungo pelo che gli ricopriva petto, Wrath le districò lisciandole verso le zampe di George.

"Dio, Wrath, svegliarmi senza di te è stato..."

"Orribile. Lo so. È stato lo stesso per me - o forse anche peggio. Credevo di aver rovinato tutto. Nel senso mandato tutto a puttane senza ritorno."

"No, non lo hai fatto." Si sentì un fruscio, come se Beth stesse cambiando posizione sul letto. "E credo che per un periodo abbiamo camminato su binari paralleli e non affiancati, lo sapevo. Solo che non avevo compreso quanto tempo abbiamo perso - e anche altre cose. Starcene a Manhattan da soli, insieme, parlare sul serio. Non lo facevamo da un bel po'."

"Onestamente, questa è un'altra ragione per cui non voglio un figlio. A malapena riesco a dedicarmi a te. Non ho niente da offrire a un bambino."

"Non è vero. Saresti un meraviglioso padre."

"In un altro universo, probabilmente."

"E allora cosa facciamo?" chiese Beth dopo un istante.

Wrath si stropicciò gli occhi. Dannazione, si sentiva sotto l'effetto dei postumi di una sbornia colossale. "Non lo so. Davvero non ne ho idea."

Entrambi avevano esternato il proprio punto di vista nel modo in cui si sarebbe dovuto fare fin dall'inizio. Ragionevolmente e con calma.

In realtà era stato lui ad avere un problema in quella situazione, non lei.

"Mi dispiace così tanto," ripeté Wrath. "Non serve a molto, su talmente tanti aspetti, lo so. Ma non c'è nulla che io possa... cavolo, mi sono davvero scocciato di sentirmi impotente."

"Non sei impotente," disse lei seccamente. "Lo abbiamo appurato con certezza."

Tutto ciò che lui riuscì a fare fu grugnire in risposta. "Quando torni a casa?"

"Adesso. Prendo la macchina - credo che ce ne sia una di riserva da qualche parte."

"Aspetta fino a che non fa buio."

"Wrath, ci siamo già passati. Non ho problemi con la luce del sole. Inoltre sono quasi le quattro e mezza. Manca poco al tramonto."

Quando Wrath immaginò Beth sotto la luce scintillante del sole, lo stomaco gli si contorse - e pensò a Payne che lo aveva accusato di essere uno sciovinista. Rispetto alla preoccupazione per la sua shellan, era molto più semplice uscirsene con un Ti Proibisco. Il problema era la reazione di Beth a quell'imposizione.

Non poteva mica chiuderla in una gabbia dorata solo per evitare di andare fuori di testa riguardo alla sua sicurezza.

E forse tutta questa storia della gravidanza per lui era solo una sfumatura più intensa della sua codardia.

"Okay," Wrath sentì la sua stessa voce. "Va tutto bene. Ti amo."

"Anch'io ti amo - Wrath, aspetta un attimo."

"Sì?" Seguì un lungo silenzio e lui si accigliò. "Beth? Che c'è?"

"Voglio che tu faccia una cosa per me."

"Qualunque cosa."

"Le ci volle un po' prima di parlare. E quando lo fece, lui chiuse gli occhi e lasciò andare la testa all'indietro.

"Wrath? Hai sentito quello che ho detto?"

Ogni singola parola. Purtroppo.

Stava per buttare fuori un assolutamente-no, quando ripensò a come si era sentito risvegliandosi senza averla accanto.


"Okay," disse a denti stretti. "Va bene. Lo farò."