mercoledì 27 maggio 2015

Capitolo 8 di THE SHADOWS di J.R. Ward



Capitolo 8



Quando l'incombere minaccioso dell'alba si mostrò a Oriente, Xcor, capo della Banda dei Bastardi, riprese forma davanti a una modesta struttura coloniale. La casa, che lui e i suoi soldati avevano usato come covo per quasi un anno, si trovava in fondo a un noioso vicolo cieco in un quartiere pieno di esseri umani appartenenti al ceto medio a metà strada del loro viaggio verso la tomba. Throe si era assicurato l'affitto con l'opzione di acquisto sulla teoria del nascondersi in piena vista, e la proprietà aveva funzionato in modo soddisfacente.

C'erano luci accese nell'interno, l'illuminazione filtrava attraverso le cuciture delle tende tirate, e lui immaginava quello che i suoi guerrieri stavano facendo all'interno. Appena rientrati da una nottata di combattimenti contro i lesser nei vicoli del centro di Caldwell, si sarebbero tolti gli abiti neri zuppi di sangue e avrebbero tirato fuori le provviste dalla ghiacciaia e dai mobili della cucina. Avrebbero bevuto, anche se non il sangue che li rendeva più forti, e nemmeno l'acqua per reidratarsi, ma piuttosto dell'alcol come balsamo interno per curare le contusioni fresche, i tagli, le abrasioni -

Improvvisamente, la nuca iniziò a formicolare in avvertimento, informandolo, come se il bruciore della pelle esposta delle mani non fosse sufficiente, che gli rimaneva poco tempo prima di mettersi al sicuro in casa.

E non aveva ancora alcun interesse a entrare dentro. Vedere i suoi soldati. Mangiare del cibo prima di ritirarsi al piano superiore in quella nauseante camera letto color lampone.

Gli era stato negato quello per cui aveva contato il passare delle ore, e la delusione era come il suo corpo in risposta all'alba nascente: la pelle gli doleva. I muscoli si contraevano. Gli occhi bruciavano.

La sua dipendenza non era stata soddisfatta.

Questa notte Layla non era venuta.

Con un'imprecazione, tirò fuori il suo cellulare e compose un numero basandosi su uno schema che aveva memorizzato sulla tastiera. Portò il telefono all'orecchio, il battito del suo cuore coprì gli squilli.

Non c'era alcun messaggio personalizzato che deviava le chiamate alla segreteria su quel numero, così dopo sei trilli, un annuncio automatizzato che specificava il numero del cliente chiamato dirottò la connessione. Non lasciò alcun messaggio.

Dirigendosi alla porta, si preparò per un assalto di rumore e caos. I suoi bastardi di sicuro avrebbero cavalcato ondate di adrenalina, il ritorno dell'alto sovraccarico delle loro esistenze ci avrebbe messo un po' a dissiparsi.

Aprì la porta -

Xcor si paralizzò a metà della soglia.

I suoi cinque soldati non stavano, di fatto, parlando l'uno sull'altro mentre facevano circolare bottiglie di alcol insieme a nastro chirurgico e garze per le ferite. Invece, erano seduti sul mobilio a disposizione che era stato dato in affitto insieme alla casa. Non c'era un bicchiere in alcuna mano, e nemmeno i suoni metallici delle pistole mentre venivano ripulite e dei pugnali in fase di riaffilatura.

Erano tutti lì: Zypher, Syphon, Balthazar, Syn... e Throe, l'unico a non essere come loro, ma che era diventato indispensabile.

Nessuno di loro alzò lo sguardo per incontrare i suoi occhi.

No, non era vero.

Throe, il suo secondo in comando, era il solo maschio a fissarlo. Era anche l'unico del gruppo a stare in piedi. Ah, quindi era stato lui a organizzare questo... qualunque cosa fosse.

Xcor chiuse la porta dietro di sé. E tenne le armi addosso.

«Hai qualcosa da dirmi?» chiese, rimanendo vicino alla porta, fissando Throe dritto negli occhi.

Il suo secondo in comando si schiarì la gola, e quando parlò il suo accento non richiamava solo a un ceto superiore, ma al più alto tra gli ordini sociali dei vampiri: quello della glymera.

«Siamo preoccupati per le tue direttive.» Il maschio si guardò attorno. «Di recente.»

«Davvero?»

Throe sembrava aspettarsi qualcos'altro in risposta. Quando non gli uscì niente da bocca, imprecò frustrato.

«Xcor, che fine hanno fatto le tue ambizioni? Il Re ha un unico erede mezzosangue e tu improvvisamente hai dimenticato la nostra missione per il trono? Hai messo da parte i nostri obiettivi come fosse una ciotola ormai vuota del suo contenuto.»

«Combattere la Lessening Society è un compito a tempo pieno.»

«Forse, se tu davvero combattessi.»

«Gli assassini che ho ucciso stasera erano una mia immaginazione, allora?»

«Non fai solo quello durante la notte.»

Xcor scoprì le zanne. «Fa' attenzione a ciò che stai per dire.»

Throe inarcò un sopracciglio in segno di sfida. «Non posso dirlo di fronte a loro?»

Quando sentì gli occhi dei suoi maschi spostarsi su di lui, gli venne voglia di colpire qualcosa. Pensava che nessuno fosse a conoscenza dei suoi incontri con Layla. Chiaramente, aveva fatto male i calcoli.

E se avesse detto a Throe di starsene zitto? Avrebbe potuto anche condannare se stesso a qualcosa di peggio.

«Non ho nulla da nascondere» ringhiò.

«Mi permetto di dissentire. Trascorri troppo del tuo tempo sotto quell'albero di acero, come un innamorato che soffre -»

Xcor si materializzò davanti del maschio con solo qualche centimetro a separare i loro volti. Non toccò Throe, ma il soldato arretrò comunque di un passo.

Il suo secondo in comando non si tirò indietro fino in fondo, però. «Vuoi dire loro di chi si tratta? O devo farlo io?»

«Lei è irrilevante. E le mie ambizioni non sono frenate da nessuno.»

«Provalo.»

«A chi?»

Xcor inclinò la testa sporgendo in fuori la mascella. «A loro? O sei tu ad avere un problema?»

«Dimostra che non ti stai rammollendo.»

In un batter d'occhio, Xcor sguainò il pugnale d'acciaio e lo premette sulla giugulare del maschio. «Qui? Ora?»

Quando Throe sussultò, la punta affilata scalfì la sua carne, un rivolo di sangue rosso vivo scivolò lungo la lucida lama pallida.

«Potrei dimostrarlo su di te» disse cupamente Xcor. «Dovrebbe bastare.»
«Sei distratto» sbottò Throe. «A causa di una femmina. Sei indebolito da lei!»

«E tu sei folle! Ho scelto di non uccidere il Re eletto legittimamente della razza - ed è su questo crimine che cerchi di garantire un ammutinamento tra i miei soldati?»

«C'eri così vicino! Eravamo a un soffio dal trono! Le tessere del domino erano state allineate, la glymera stava per scommettere su di te -»

Xcor premette di nuovo il pugnale, ponendo fine alla filippica. «Questa riunione sleale riguarda la mia ambizione o la tua? Permettimi di chiederti con precisione per quale perdita sei in lutto?»

«Non ci stai guidando più.»

«Domandiamolo a loro.»

Xcor si scostò e cominciò a girare per la stanza, guardando le teste chine dei suoi soldati. «Che cosa ne dite tutti voi? Andate con lui o restate con me?»

Quando un coro di imprecazioni ruppe l'aria tesa, lui si voltò verso Throe. «Perché è questo quello che stai facendo, non è vero? Li poni di fronte a una scelta - o tu o io. Per cui, io dico, non tiriamola per le lunghe e finiamola quanto prima. «Dove volete stare, miei bastardi?»

Ci fu una lunga pausa.

E poi Zypher alzò gli occhi. «Chi è lei?»

«Non è la domanda che ti ho posto.»

«È a questa domanda che vogliamo risposte.»

Xcor sentì montare la rabbia. «Lei non è affar vostro.»

Non esisteva in alcun diavolo di modo che spiegasse ciò che lo legava all'Eletta. Le narici di Zypher si dilatarono mentre prendeva un respiro profondo.

«Gesù... ti sei legato a lei.»

«No.»

«Lo sento anche io» disse qualcuno. «Chi è?»

«Lei è insignificante.»

Throe parlò, forte e chiaro. «Lei è un'Eletta. Che vive con la Confraternita.»

Eeeee con quell'affermazione si scatenò il caos che aveva precedentemente anticipato: la stanza si riempì di voci maschili, che si coprivano l'una con l'altra, frammenti dell'Antico Idioma misti a inglese e parolacce in tedesco.

Nel frattempo, Throe tirò fuori un fazzoletto pulito e premette le tela bianca sulla ferita alla gola. «Non riesco per capire il motivo per cui si veda con te - quale potere hai su di lei? Deve essere una specie di persuasione - soldi? Oppure è un qualche tipo di minaccia?»

Xcor lasciò correre l'insulto, dato che non era proprio vicino alla verità; il maschio aveva colpito nel segno. 

L'unico motivo per cui l'Eletta Layla aveva accettato di vederlo era perché lui conosceva la posizione della magione della Confraternita del pugnale nero, e lei era terrorizzata che lui radesse al suolo la proprietà. C'era stata una notte, quasi un anno prima, in cui aveva seguito la traccia del suo sangue e aveva scoperto per caso quel grande segreto. E Throe aveva ragione - lui aveva sfruttato quella scoperta a proprio beneficio.

Lei gli aveva promesso il suo corpo in cambio del suo mantenersi a distanza dal sito inviolabile.

E sebbene non l'avesse ancora reclamata in un modo carnale, per rispetto della gravidanza, della virtù, e della sua posizione... gli apparteneva.

Alla fine, avrebbe preso quello che era suo e l'avrebbe marchiata come propria -

Merda, si era legato?

Xcor si concentrò di nuovo su Throe e i suoi Bastardi.

«Preoccupiamoci di questo ammutinamento e non dell'immaginazione di qualcuno. Allora, cosa ne dite? Tutti quanti.» Ci fu una lunga pausa. «Ognuno di voi.»

Pensò che, mentre attendeva una risposta, il fatto che Throe fosse in piedi e respirasse ancora era la prova del fatto che Xcor si fosse un po' ammorbidito. Addestrato dal Carnefice, non aveva dimenticato ciò che aveva imparato sui campi di guerra, ma negli ultimi tempi, si era reso conto che la forza bruta e gli spargimenti di sangue erano solo un mezzo per raggiungere un fine - e là ce n'erano altri che potevano essere più efficaci.

Ad esempio, Wrath l'aveva dimostrato con il modo in cui aveva gestito l'assalto finale al suo trono. Quel re e la sua compagna avevano respinto anche il più infallibile attacco contro la sua reggenza - e l'avevano fatto non solo senza perdere una singola vita, ma con una castrazione così completa da strappare via i poteri alla stessa glymera.

E Wrath, come leader ormai scelto dal suo popolo, aveva il potere inattaccabile.

Throe ruppe il silenzio, rivolgendosi ai soldati. «Credo di essere stato chiaro. Sento fortemente che dovremmo riprendere la missione per impadronirci del trono. Abbiamo colpito Wrath una volta - siamo in grado di arrivare a lui nuovo. Potrà anche essere stato eletto democraticamente, ma non può continuare a governare se non respira. E poi abbiamo bisogno di riorganizzare il supporto all'interno della glymera privata dei propri diritti. Coordinando una strategia costituzionale con gli ex membri del Consiglio, possiamo sostenere che Wrath ha abusato dei suoi poteri e -»

«Sei uno stupido» esclamò Xcor tranquillamente.

Throe si voltò scoccandogli un'occhiata ostile. «E tu sei un fallimento!»

Xcor scosse la testa. «Il popolo si è espresso. Hanno scelto di mettere Wrath sul trono che aveva ereditato in precedenza, e non c'è lotta da vincere quando non vi è un solo fronte, ma migliaia. Le leggi tradizionali e le norme culturali sono mantelli fragili di potere e influenza. Eppure la democrazia, quando viene davvero esercitata, è una fortezza di pietra inespugnabile, che non può essere spazzata via, oppure rasa al suolo scavandoci al di sotto. Quello che non ti riesce di capire, comandante in seconda, è che non c'è nulla contro cui combattere - partendo dal presupposto che stai conducendo questo assalto senza alcuna speranza di prevalere.»

Throe strinse gli occhi. «Dimmi una cosa, è stata la tua Eletta a istruirti? Non credo di aver mai sentito nulla di simile uscire dalla tua bocca prima.»

Xcor si costrinse a rimanere tranquillo. Lui e i suoi soldati avevano combattuto insieme molto prima che Throe si unisse alla banda. Ma se quei maschi non fossero riusciti a guardare oltre questa ambizione malata? Allora Throe li avrebbe avuti tutti dalla sua parte.

Xcor non si sarebbe inchinato a nessuno.

Nel silenzio che seguì, Throe lasciò scivolare lo sguardo sui guerrieri che una volta lo avevano evitato perché lo credevano un damerino e ne vedevano la debolezza, ma le cose erano cambiate e avevano imparato a rispettarlo come un soldato nel corso degli ultimi due secoli. «La manipolazione è più efficace quando è condotta da qualcuno di sesso femminile. Non pensi che sia una forma di propaganda? Farlo nutrire proprio da quella che più può sedurre la sua mente, il suo corpo, le suo emozioni? Hai percepito il legame tu stesso. Sappi che l'anima segue il cuore, e il tuo non è più con noi, con i nostri obiettivi, con quello che possiamo realizzare. Non è la forza a guidarti, ma il tipo di debolezza che una volta disprezzavi negli altri. Vedi? Anche adesso te ne stai zitto!»

Xcor si strinse nelle spalle. «Non ci trovo alcun gusto nel pontificare.»

«Hai imparato la definizione di quella parola sei mesi fa?» lo rimbeccò Throe.

«Cosa ne pensa la maggior parte di voi?» Xcor si guardò intorno con un senso di costante noia. «La scelta è vostra, ma sappiate questo: una volta fatta, è come inchiostro la pelle, è indelebile.»

Zypher fu il primo a rimettersi in piedi. «Ho una sola fedeltà.»

Con questo, si avvicinò e sfoderò il pugnale d'acciaio. Si tagliò il palmo aperto, si avvicinò a Xcor e gli prese la mano.

Xcor strinse ciò che gli era stato offerto e si accorse di doversi schiarire la voce. Balthazar fu il successivo, prese lo stesso coltello e si tagliò, aggiungendo il ​​suo sangue - e Syphon si mosse con uguale efficienza, impegnandosi con solerzia.

Syn osservò tutto a palpebre abbassate, rimanendo immobile. Era, come sempre, il jolly del mazzo - ma anche lui si alzò e si avvicinò a Xcor. Prese la lama, si tagliò la mano e strinse, il suo labbro superiore ritratto, come se gli piacesse il dolore.

Xcor accettò il voto dell'ultimo dei suoi soldati e poi guardò Throe. Portando la mano da cui gocciolava il sangue rosso alla bocca, snudò le zanne e sibilò, mordendosi la propria carne per poi leccare e ripulirsi dal sangue mischiato.

«Come se fosse potuto andare diversamente.» Lui sorrise con crudeltà. «Non sei mai stato uno di noi.»

Il bel volto di Throe si contorse in una smorfia. «Mi hai costretto a unirmi a voi. Sei stato tu a farmi questo.»

«Ma ti svincolerai, è corretto? Bene, ti ho lasciato la tua libertà un anno fa. Lascia che l'ambizione guidi il tuo destino se lo desideri, ma una volta uscito da quella porta, non potrai più tornare indietro. Per noi tu sei morto, le tue azioni dipenderanno esclusivamente da te e da nessun altro.»

Throe annuì. «Così sia.»

Il maschio si allontanò a passo di marcia, prese le sue armi e il suo cappotto; poi raggiunse la porta. Voltandosi indietro, si rivolse al gruppo. «È in errore su molti aspetti, soprattutto riguardo al trono. Una guerra con migliaia di fronti? Penso di no. Tutto ciò che bisogna fare è eliminare Wrath. Poi la corona sarà assunta dalla mano più forte - quella del maschio che non appartiene più questo gruppo.»

Il guerriero si chiuse la porta alle spalle con un tonfo.

Xcor strinse i molari, sapendo dannatamente bene che Throe doveva aver predisposto un piano di emergenza prima di fare la sua offerta a tutti loro - o non sarebbe stato così indifferente nel lasciarli solo pochi minuti prima dell'alba.

Throe aveva scommesso e aveva perso - ma solo contro tutti loro. Quale sarebbe stata la sua prossima mossa? Xcor non ne aveva idea.

Wrath avrebbe fatto bene a preoccuparsi.

Ci fu un po' di rumore di sottofondo. Gole che si schiarivano. E poi, naturalmente, arrivarono i commenti.

«Allora» sbottò Zypher. «Hai intenzione di dirci di che colore ha gli occhi?»

«È il minimo che tu possa fare» intervenne Balthazar. «Descrivicela.»

«Un'Eletta?»

«Come è possibile che nell'intero mondo tu -»

All'improvviso, la casa era tornata alla normalità, voci maschili riempivano l'aria, bevande venivano aperte e versate, bende spuntavano fuori per fasciare le mani ferite durante il combattimento.

Xcor tirò un sospiro di sollievo talmente intenso da scioccarlo - ma non si lasciò ingannare. Anche se i suoi soldati si erano schierati dalla sua parte, ora aveva un nuovo nemico contro cui lottare - e Throe, grazie all'addestramento proprio per mano di Xcor, era davvero pericoloso.

Tirando fuori il suo telefono, abbassò lo sguardo... e vide che la sua chiamata non aveva ricevuto risposta.

Per via dell'abbandono di Throe era indispensabile conquistare la sua Eletta - e adesso si preoccupava che forse Throe l'avesse raggiunta per primo e per questo motivo lei non si era presentata.

«Allora?» esclamò Zypher. «Lei come?»

Un silenzio improvviso che sembrava schiantarsi contro il rumore.

E lo scioccò rendersi conto che voleva parlarne con loro. Se l'era tenuto dentro per quanto?

Con parole esitanti, cominciò «Lei è... la luna che rischiara il mio cielo di notte. Ed è il principio, il centro e la fine di tutto. Non c'è altro che debba essere detto, e non parlerò mai più di lei.»

Mentre se ne andava in direzione delle scale, poteva sentire i loro occhi su di lui - e non lo stavano guardando con disprezzo. No, anche se cercavano di nasconderlo, c'era della pietà che aleggiava tra loro - il riconoscimento della bruttezza del suo volto e la natura inconciliabile di una storia d'amore per lui con qualsiasi femmina, ancora meno con una della classe delle Elette.

Si fermò con la mano sulla balaustra. «Domani al tramonto, tutte le provviste e gli averi dovranno essere imballati. Dobbiamo lasciare questa postazione e trovarne un'altra. Questa casa non è più sicura.»

Salendo le scale, sentì l'accettazione dei suoi guerrieri. E sentì anche un pungente senso di gratitudine per aver scelto lui come loro guida.

A dispetto della più evidente intelligenza di Throe, del lignaggio, della condizione sociale... e dell'aspetto.


Seguiamo il deforme, pensò mentre si chiudeva in camera da letto. Anche se aveva perso tanto nel corso dei secoli nella vita, per gentile concessione del suo labbro leporino e della grossolanità, quei soldati al piano di sotto lo stimavano. E lui stimava loro.

mercoledì 20 maggio 2015

Capitolo 7 di THE SHADOWS di J.R. Ward



Capitolo 7



In piedi davanti al lungo specchio della sua camera da letto, Layla cercò di sistemarsi addosso quella che avrebbe dovuto essere una mantella morbida, ma drappeggiare le numerose pieghe sul suo ventre era come chiedere a un plaid di coprire un letto king size.

Abbassò lo sguardo. Non riusciva più a vedersi i piedi, e per una volta nella sua vita, i suoi seni erano grandi abbastanza da creare un vero solco sotto la sua veste.

Data la sua ampiezza, era difficile credere che le mancassero ancora parecchi mesi per portare a termine la gravidanza.

Perché i vampiri non potevano essere più simili gli esseri umani? Quelle creature inferiori impiegavano solo nove mesi. La sua specie? Almeno diciotto.

Con sguardo da sopra la spalla, si controllò nello specchio della credenza. Secondo i vari programmi sulla gravidanza umana che aveva visto in televisione, avrebbe dovuto sentirsi raggiante. Avrebbe dovuto gioire dei cambiamenti del proprio corpo e accogliere il miracolo del concepimento, della crescita, e infine del parto.

Certo che gli esseri umani appartenevano proprio a una razza diversa.

L'unico aspetto positivo ricevuto da questa esperienza - che senza dubbio era l'unica cosa che contava davvero- era che il suo bambino era attivo e apparentemente in buona salute. I controlli regolari con la dottoressa Jane avevano indicato che tutto procedeva alla perfezione, le tappe fondamentali erano giunte e passate, le varie fasi arrivate e andatesene con grazia.

E questo riguardava gli aspetti positivi. Tutto il resto? Ma anche no, grazie. Detestava la nausea che la colpiva ogni santa volta che si metteva in piedi. I grossi meloni incassati nel suo petto che le rendevano difficile respirare. Il gonfiore alle caviglie e alle mani che trasformava gli arti sinuosi in tronchi d'albero. Poi c'erano gli ormoni in fermento...

Che le facevano venire voglia di fare cose che le femmine incinte non dovrebbero fare.

Soprattutto visto con chi avrebbe voluto farle -

«Basta. Adesso smettila.»

Si prese la testa tra le mani e lottò contro il lancinante senso di colpa che era stato la sua ombra quegli ultimi mesi, plasmandosi addosso come la propria pelle, pesante come una cotta di maglia.

A differenza della gravidanza, al cui termine il disagio e la preoccupazione sarebbero cessati, non ci sarebbe stato alcun conforto con l'altra situazione. Nessun evento da portare a compimento, almeno non uno che avrebbe portato gioia.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, e lei aveva fatto la sua scelta.

Arrivò alla porta della sua camera e la socchiuse, attenta a scorgere il rumore di passi. Voci. Gli aspirapolvere in funzione. Quando non sentì più nulla, uscì nella galleria delle statue e guardò a sinistra e a destra. Una rapida occhiata al suo orologio le disse che aveva circa un'ora e mezza prima che il sorgere dell'alba la costringesse a rientrare alla magione della Confraternita.

Una volta fuori dalla camera avrebbe voluto correre, ma riusciva a malapena a camminare a passo svelto mentre si dirigeva verso l'ala del personale.

Aveva pianificato il suo percorso verso l'uscita in precedenza e in maniera funzionale, era molto brava a gestire i dettagli. Le ci volevano sei minuti per scendere le scale posteriori ed entrare in garage. Due minuti per raggiungere l'auto che le avevano messo a disposizione e con cui usciva regolarmente dicendo alla gente che andava a "schiarirsi le idee."

Sedici minuti di viaggio costeggiando i terreni coltivati a est della città.

Due minuti a piedi fino che al campo con l'acero al centro.

Dove l'avrebbe aspettata -

«Layla?»

Lei incespicò nei suoi piedi mentre si voltava. Blay era all'inizio della galleria delle statue in tenuta da combattimento, con i pantaloni imbrattati e il volto esausto.

«Ah - ciao» rispose. «Sei di ritorno dal campo di battaglia?»

«Stai per uscire?» Blay aggrottò la fronte. «È tardissimo.»

«Faccio solo un giretto in auto» esclamò rilassata. «Sai, per schiarirmi le idee.»

Beata Vergine Scriba, odiava mentire.

«Beh, sono contento di averti incontrata prima che uscissi. Qhuinn non se la passa bene.»

Layla si accigliò avvicinandosi al guerriero. Il padre della sua bambina era una delle persone più importanti nella sua vita, al pari di Blay. Quella coppia era la sua famiglia. «Perché?»

«Luchas.» Blay sganciò il fodero del pugnale dal petto. «Si rifiuta di nutrirsi e Qhuinn non sa più cosa fare.»

«È stato quasi un mese fa.»

«Di più.»

Di solito, se un vampiro maschio in salute si abbeverava alla vena di un'Eletta, potevano trascorrere tranquillamente diversi mesi tra un nutrimento e l'altro, a seconda dell'attività svolta, dallo stress, e dal quadro di salute generale. Tuttavia, per qualcuno malato come Luchas? Molto più di una settimana o due potevano trasformarsi velocemente in una condanna a morte.

«Dov'è Qhuinn adesso?»

«Giù nella sala da biliardo. Mi hanno richiamato prima dalle strade perché...» Blay scosse la testa. «Già, non se la sta passando bene.»

Layla chiuse gli occhi e poggiò una mano sulla pancia. Doveva andare. Doveva restare...

«Devo fare una doccia.» Blay guardò la porta della stanza che divideva con Qhuinn. «C'è la possibilità che tu possa stare un po' con lui fino a quando non arrivo?»

«Oh, sì, certo.»

Blay allungò una mano e le strinse spalla. «Avrò bisogno del tuo aiuto con lui. Questa storia sta diventando...»

«Lo so.» Layla si tolse il cappotto e non si preoccupò di riportarlo nella sua stanza. Lo lasciò cadere sul pavimento di fronte alla propria porta. «Adesso scendo giù.»

«Grazie. Dio, ti ringrazio.» Si abbracciarono per un istante e poi lei si allontanò con la sua andatura a papera diretta alla scalinata e dal maschio che le aveva dato il dono inestimabile del bambino che portava in grembo.

Non c'era nulla che non avrebbe fatto per Qhuinn o per il suo hellren.

Comunque, era conscia del maschio che la stava aspettando in quel momento sotto quell'albero di acero, fuori in quel campo.

La sua coscienza la tormentava, soprattutto mentre passava davanti alla doppia porta aperta dello studio del re. Attraverso la porta regale, vide il trono dietro la grande scrivania intagliata... e ricordò perché aveva sancito il patto che aveva stretto.

Aveva venduto il proprio corpo al capo della Banda dei Bastardi affinché tutti lì alla magione fossero al sicuro. Tuttavia l'accordo non era ancora stato consumato per via della sua gravidanza - il che l'aveva sorpresa in un primo momento. Xcor era un brutale guerriero, non solo di nome ma di fatto, in realtà faceva del male agli altri - godendone. Eppure con lei, sembrava contento di prendersi il suo tempo prima di riscuotere ciò che gli era dovuto.

Si erano incontrati regolarmente sotto quell'albero per parlare. O a volte semplicemente per stare seduti in silenzio, con i suoi occhi che le scivolavano lungo il corpo come se...

Beh, a volte pensava che lui sembrava acquisire forza solo guardandola, come se la connessione visiva fosse una specie di vena da cui aveva bisogno di abbeverarsi a intervalli specifici.

Altre volte, lei sapeva che la immaginava nuda - allora ripeteva a se stessa che avrebbe dovuto sentirsi offesa da questo. Avrebbe dovuto esserne spaventata.

Preoccupata.

Ultimamente, però, una strana curiosità che lo riguardava si era radicata sotto la paura, una curiosità legata al suo corpo possente, agli occhi socchiusi... alle labbra, sebbene quello superiore fosse rovinato...

Era tutta colpa dei suoi ormoni - e cercò di non soffermarsi sulle brame. L'unica cosa che doveva tenere a mente era che fino a quando lei avesse continuato a incontrarlo, lui aveva giurato su tutto ciò che per lui rappresentava l'onore che non avrebbe fatto irruzione nel complesso.

Dopotutto, l'unica ragione per cui lui conosceva la posizione del loro quartier generale, era a causa sua. 

Indirettamente, forse, ma si sentiva come se quella falla nella sicurezza fosse solo colpa sua.

L'intero accordo rappresentava un patto con il diavolo, eseguito per far sì che le persone a cui lei teneva fossero al sicuro. Lei odiava le bugie, la doppia vita, il senso di colpa... e la paura che prima o poi avrebbe dovuto onorare le sua parte dell'accordo.

Ma non c'era nulla che potesse fare.

E stasera, la sua famiglia aveva la precedenza sul suo inganno.


*    *    *


Giù nella sala visite principale del centro di addestramento, Trez stava vivendo un'esperienza extracorporea mentre il vorticoso spostamento si fermava e ancora una volta lui dovette ricalibrare la sua posizione. Grazie a Dio erano tornati tutti interi. Ora, se solo ci fosse stato qualcuno in grado di aiutarli.

Cullando tra le braccia il corpo rigido e contorto di Selena, lanciò un'occhiata oltre la sua spalla. La dottoressa Jane, la shellan di V, era in piedi da un lato in completa tenuta da medico: camice blu, guanti in gomma nitrilica verde, scarpette ai piedi. Però non si avvicinò a Selena. Rimase dov'era a fissarli, per un tempo che a lui parve un'eternità.

Merda. Trez non ne capiva di medici, ma in generale, quando qualcuno con un enorme "Dottor" scritto davanti al proprio nome vedeva per la prima volta un paziente, non doveva effettuare una visita completa?

Non era un buon segno.

Rhage e V erano al lato opposto, e allo stesso modo fissavano inebetiti lui e Selena, come se anche loro non avessero nessun idea su come poter essere d'aiuto.

La dottoressa Jane si schiarì la gola. «Trez...?»

«Chiedo scusa, cosa ha detto?»

«Mi lasci darle un'occhiata?»

Trez aggrottò la fronte. «Certo - prego.» Quando la dottoressa Jane non si mosse, Trez cominciò a perdere la pazienza. «Quale diavolo è il problema-»

«Hai snudato le zanne e stai ringhiando. Ecco qual è il problema.» Fece un rapido autoesame e scoprì che -caspita, in effetti si era trasformato in Cujo, con il peso del corpo infossato sulle cosce abbassate, sfoderando l'attrezzatura in dotazione, e ringhiando come se avesse un tagliaerba industriale nel retro della gola.

«Già, mi dispiace.» A quel punto, si accorse anche che era indietreggiato con la schiena in un angolo e teneva Selena stretta al petto come se qualcuno stesse cercando di portargliela via. «Quindi dovrei metterla sul tavolo.»

«Sarebbe un buon punto di partenza» sottolineò V.

Il suo corpo si prese il suo tempo con calma mentre lui dava il comando di muoversi avanti, e alla fine, solo il fatto che lei aveva bisogno di cure per mano di qualcuno che avesse anche solo mezzo cervello e uno stetoscopio lo convinse a raggiungere il centro della stanza. 

Abbassandosi, la allungò sul piano di acciaio inossidabile - e lui rabbrividì perché era come spostare una sedia di legno: il corpo di Selena rimase nella stessa posizione in cui lui l'aveva trovato, le gambe tese, il tronco contorto, le braccia rannicchiate al petto. E la cosa peggiore? La testa era rimasta voltata in quella brutta angolazione, ritorta nella direzione opposta alle spalle come se stesse soffrendo un enorme dolore.

La sua mano tremava mentre le scostava i capelli dal viso. Aveva gli occhi aperti, ma non era sicuro che lei fosse cosciente. Non sembrava concentrarsi su niente, di tanto in tanto dei lenti battiti di ciglia erano l'unica indicazione che lei era sveglia.

Che era ancora viva.

Trez abbassò il viso all'altezza dei suoi occhi. «Sei al centro di addestramento. Adesso loro ti...»

Quando la sua voce s'incrinò, ordinò a se stesso di mettere una dannata distanza da quel tavolo e lasciare che la dottoressa Jane facesse il suo lavoro.

Incrociando le braccia sul petto, marciò all'indietro fino a quando sentì una mano pesante sulla sua spalla. Era Rhage. E Trez era abbastanza sicuro che il gesto fosse in parte compassione, in parte l'assicurarsi che il maschio legato in lui non decidesse di afferrare di nuovo le redini.

«Lasciali lavorare» disse Hollywood mentre Ehlena, che era sia la shellan di Rehv che l'infermiera, irruppe nella stanza. «Vediamo cosa abbiamo.»

Trez annuì. «Va bene. Sì.»

Il buon dottore si chinò e scrutò gli occhi opachi di Selena. Qualunque cosa le avesse detto a voce troppo bassa per poterla sentire, ma il ritmo di Selena nel battere le palpebre era cambiato - anche se era difficile capire se era un bene o un male.

Pressione sanguigna. Battito. Reazione delle pupille. I primi tre controlli si svolsero in fretta, ma Jane non sprecò tempo nell'annunciare i risultati. Lei e la sua infermiera continuavano a lavorare velocemente, misurarono la temperatura di Selena, le inserirono una flebo sul dorso della mano, perché le curve dei gomiti erano bloccate.

«Voglio farle un elettrocardiogramma, ma non riesco a posizionare gli elettrodi sul petto» disse la dottoressa Jane. Poi guardò oltre la spalla verso il suo compagno. «Sai di qualche sindrome che causa questi effetti? È come un attacco epilettico che irrigidisce tutto il corpo, solo le pupille restano reattive.»

«No. Vuoi che chiami Havers per un consulto?»

«Sì. Per favore.» Quando V uscì dalla stanza, Jane scosse la testa. «Ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel suo cervello, ma non abbiamo né un apparecchio per la risonanza magnetica né per la tomografia assiale computerizzata.»

«Quindi dobbiamo portarla da Havers» esclamò Trez.

«Neanche lui possiede quell'attrezzatura tecnologica.»

«Cazzo.» Quando la presa di Rhage si strinse su di lui, Trez si focalizzò sul volto di Selena. «Sta soffrendo? Non voglio che lei soffra.»

«Devo essere onesta?» disse il dottore. «Non lo so. E fino a quando non capirò qualcosa sul stato neurologico, non ho intenzione di imbottirla di farmaci che potrebbero inibirle le funzioni. Ma mi muoverò più veloce che posso.»

Sembrò volerci un'eternità, il tempo si fermò completamente mentre tutto quello che lui poteva fare era guardare il complicato andirivieni medico intorno a quel tavolo. E Rhage rimase accanto a lui, nei panni di una sentinella con funzioni di babysitter mentre Trez cavalcava gli estremi del Me La Sto Facendo Sotto e Voglio Farmi Saltare Le Cervella senza alcuna grazia.

E poi l'Eletta Cormia spalancò la porta.

Nell'istante in cui la femmina vide Selena, ansimò e portò entrambe le mani alla bocca. «Beata Vergine Scriba...»

La dottoressa Jane distolse lo sguardo dal prelievo di sangue che stava effettuando sul dorso della mano di Selena. «Cormia, sai cosa potrebbe avere-»

«Lei ha la malattia.»

Tutti si paralizzarono. Eccetto Cormia. L'Eletta corse al fianco della sorella e accarezzò i capelli scuri di Selena, sussurrandole parole nell'Antico Idioma.

«Quale malattia?» domandò la dottoressa Jane.

«La traduzione dall'Antico Idioma è grossomodo 'l'Arresto'.» L'Eletta si asciugò gli occhi. «Lei ha l'Arresto.»

Trez sentì la propria voce fendere il silenzio. «Che cos'è?»

«Ed è trasmissibile?» intervenne Jane.


martedì 12 maggio 2015

Capitolo 6 di THE SHADOWS di J.R. Ward



Capitolo 6


RISTORANTE DA SALVATORE, FUORI LITTLE ITALY, CALDWELL


Con un'imprecazione, iAm interruppe la chiamata che aveva appena ricevuto al cellulare e si sostenne al bancone di fronte a lui. Dopo un momento di aritmia, afferrò la giacca da marinaio di lana, quella nera con la calibro quaranta nella tasca nascosta sul lato sinistro e un coltello da caccia lungo all'incirca venti centimetri cucito nella fodera sul quello destro.

Avrebbe potuto avere bisogno di armi.

«Chef? Tutto bene?»

Lanciò un'occhiata all'altro lato della cucina industriale ad Antonio diSenza, il suo capo cuoco. «Mi dispiace. Già. Devo andare - e io già iniziato la mise en place

Afferrò di nuovo il cellulare. «Puoi terminarla domani.»

Antonio si tolse la toque e appoggiò un fianco contro il mastodontico piano cottura a dodici fuochi. Tutta l'attrezzatura usata per servizio della cena era stata ripulita, il persistente vapore dalle lavastoviglie in funzione rendeva la cucina dodici metri x sei un qualcosa emerso dalla foresta pluviale amazzonica.

Troppo tranquillo, pensò iAm. E la stanza illuminata a giorno puzzava di candeggina invece che di basilico.

«Grazie, chef. Vuoi che sbollenti i pomodori prima di andarmene?»

«È tardi. Vai a casa. Hai fatto un buon lavoro stasera.»

Antonio si asciugò il viso con un canovaccio blu e bianco. «Grazie a te, chef.»

«Chiudi al posto mio?»

«Tutto quello che vuoi.»

Con un cenno del capo, iAm uscì dalla cucina e tagliò attraverso l'ingresso piastrellato per la consegna diretto all'uscita posteriore. All'esterno, due dei suoi camerieri fumavano bighellonando attorno alle loro auto, senza le giacche degli smoking, i papillon rossi disfatti che pendevano dai colletti aperti. «Chef» esclamò uno di loro, raddrizzandosi.

L'altro richiamò subito la sua attenzione. «Chef.»

Tecnicamente, era più il capo che lo chef lì al Sal, ma aveva un sacco di esperienza in cucina e lui stesso aveva creato delle ricette, e il personale lo rispettava per questo. Non era sempre stato così. La prima volta che vi aveva messo piede per assumere la direzione di quell'istituzione di Caldwell, non era stato accolto proprio bene. Tutti, dai camerieri agli chef agli aiuto camerieri, avevano creduto che, visto che lui era un afro-americano, il profondo orgoglio e la tradizione di quella proprietà italiana, la cucina e la cultura avrebbero funzionato contro chiunque non avesse sangue siciliano nelle vene.

In quanto Ombra, iAm aveva capito l'affare meglio di quanto pensassero. Il suo popolo non voleva avere niente a che fare con i vampiri o con i symphath - e di sicuro sfiorare neanche di striscio quegli umani senza palle. E il Sal era uno dei più famosi ristoranti in Caldwell, non rappresentava solo un ritorno al periodo in cui andavano di moda i Rat Pack negli anni cinquanta, ma un posto che di fatto aveva servito il Presidente del  Consiglio e il suo astuto seguito. Con la sua carta da parati damascata, il banco della reception e tutta la formalità, somigliava al Sardi nella parte nord - ed era sempre stato di proprietà di italiani e gestito da loro.

Dopo più di un anno che era nelle sue mani, però, tutto andava alla grande. Lui aveva dimostrato a tutti, dai clienti al personale ai fornitori, non solo di poter vestire i panni di Salvatore Guidette III, ma di saperli riempire. Ora? Veniva trattato con un rispetto che sfiorava la venerazione.

Si chiese che cosa avrebbero pensato di lui se avessero saputo che non veniva dall'Africa, lui non si riconosceva come americano - e cosa ancora più importante, non era nemmeno umano.

Un'Ombra era in mezzo a loro.

«Ci vediamo domani» disse ai due uomini.

«Sì, chef.»

«Notte, chef.»

iAm fece loro un cenno col mento e si avviò a grandi passi, svoltando all'angolo più lontano. Non appena fu fuori vista, chiuse gli occhi, sì concentrò e si smaterializzò.

Quando riprese forma, era sul terrazzo al diciottesimo piano del Commodore, nell'appartamento di proprietà sua e del fratello. La portafinestra di vetro scorrevole era spalancata, le lunghe tende bianche svolazzavano dentro e fuori dall'interno buio come fantasmi che provavano a fuggire senza riuscirci. Aveva avuto due possibili destinazioni: o qui, oppure lo shAdoWs, e aveva scelto il loro appartamento da scapoli a causa di ciò che lo attendeva all'interno.

C'erano notizie dalla s'Hisbe, e tutto sommato iAm preferiva riferirle lui stesso a Trez che lasciare questo compito al maschio che avevano mandato.  

Infilò la mano nella giacca, la strinse sul calcio della pistola ed entrò. «Dove sei.»

«Da questa parte» fu la profonda, tranquilla risposta.

iAm si voltò a sinistra, verso il divano di pelle bianca contro la parete in fondo. I suoi occhi acuti si adattarono in un attimo, e l'enorme sagoma nera del boia della Regina divenne nitida.

iAm aggrottò la fronte. «Cosa c'è che non va?»

Il tintinnio dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere tumbler ruppe il silenzio. «Dov'è tuo fratello?»

«Oggi è la serata di apertura del nuovo locale. È impegnato.»

«Deve rispondere al telefono» disse s'Ex con tono brusco.

«La regina ha partorito?»

«Sì. Ha partorito.»

Un lungo silenzio. Rotto solo dal suono di quei cubetti di ghiaccio. iAm inspirò e colse il profumo del bourbon - insieme a una aspra tristezza talmente intensa che lasciò la sua presa sulla sua pistola. «s'Ex?»

Il boia si alzò di scatto dal divano e si diresse a grandi passi verso il bar, la veste gli vorticava alle spalle come ombre spazzate da un forte vento.

«Vuoi unirti a me?» chiese il maschio versandosi altro whisky nel bicchiere.

«Dipende. Quali notizie porti e come influiscono sul mio gemello?»

«Hai bisogno di un drink.»

Giusto. Fantastico. Senza ulteriori commenti, iAm si avvicinò e si unì a s'Ex al bar. Non importava cosa ci fosse nel bicchiere, se ci fossero i cubetti di ghiaccio, una spruzzata di soda. Buttò giù quella che si rivelò essere vodka e se ne versò dell'altra.

«Quindi non era la prossima regina» esclamò. «La piccola che è nata.»

«No.» s'Ex tornò al divano. «L'hanno uccisa.»

«Cosa

«È stato... decretato. Dalle» - agitò il bicchiere in aria sopra la sua testa - «stelle. Così hanno ucciso la bambina. Mia... figlia.»

iAm sbatté le palpebre. Bevve un altro po'. E poi pensò, Gesù, se la regina poteva fare una cosa del genere a una neonata innocente nata dal proprio corpo, il capo della s'Hisbe era capace di tutto.

«Per cui» esordì s'Ex con un tono ancora più piatto. «Tuo fratello torna a essere la prima preoccupazione di Sua Maestà. C'è un periodo di lutto obbligatorio da rispettare e adesso io partirò per parteciparvi. Ma dopo la cerimonia di clausura e i riti che l'accompagnano, mi manderanno a prelevare il Prescelto.»

La cerimonia di clausura era la sepoltura formale dei sacri morti, un diritto riservato solo ai membri della famiglia reale. E il lutto sarebbe durato un determinato numero di notti e giorni. Dopo di che... le loro proroghe si sarebbero esaurite.

«Merda» sbottò iAm.

«Sarei felice di informare tuo fratello, ma -»

«No, glielo dirò io.»

«Lo immaginavo.»

iAm si sedette accanto alla boia. Alzando lo sguardo, ripensò alle caratteristiche del maschio. s'Ex rappresentava qualcosa di peggio della classe inferiore; era nato da semplici domestici ma, grazie ai muscoli e all'intelligenza, era riuscito a sedurre la regina. Era stata un'ascensione senza precedenti attraverso gli strati dei livelli sociali.

«Mi dispiace» sussurrò iAm.

«Per cosa?»

«Per la tua perdita.»

«Era scritto nelle stelle.»

La casuale scrollata di spalle del maschio fu smentita dall'incrinarsi della voce.

Prima che iAm potesse dire qualcos'altro, s'Ex si chinò nella sua direzione. «Giusto per essere chiari, non esiterò a fare tutto ciò è necessario per portare indietro tuo fratello e lui concederà il suo corpo per lo scopo per cui è nato.»

«Questo lo hai già detto.» Allo stesso modo di s'Ex, iAm si sporse in avanti e lo fissò negli occhi. «E giusto per essere realistici, tu non credi davvero a questa stronzata dell'astrologia, vero?»

«Da noi funziona così.»

«E questo significa che sia giusto?»

«Tu sei un eretico. Così come lo è tuo fratello.»

«Lascia che ti chieda una cosa. Hai sentito la piccola urlare? Quando hanno ucciso la tua bambina, hai -»

L'attacco non fu inaspettato, il boia si scagliò contro di lui con una tale forza che la sua sedia fu scaraventata all'indietro e entrambi finirono sul pavimento, s'Ex a cavalcioni su iAm mentre lo scuoteva con rabbia. 

«Dovrei ucciderti» ringhiò il maschio.

«Incazzati con me se vuoi» replicò secco iAm. «Ma sii onesto, almeno con te stesso. Non sei più così fiero di compiere il tuo dovere, vero?»

s'Ex si allontanò di scatto e atterrò sul culo. Si prese la testa tra le mani, il respiro affannoso, come se stesse cercando riprendere il controllo di se stesso - senza riuscirci.

«Non ho più intenzione di aiutarvi» disse il boia con la voce roca. «Il dovere richiede di essere soddisfatto.»

iAm si mise a sedere e pensò alle costellazioni sotto cui suo fratello era nato come a una malattia, un qualcosa per cui non si era offerto volontario, fagocitato dalla vita che aveva vissuto, una bomba a orologeria pronta a esplodere.

La detonazione di Trez era stata rimandata per, oh, così tanto tempo. Adesso, però, sarebbe esplosa senza ulteriori attese.

Non per la prima volta nella sua vita, iAm desiderò essere nato prima di Trez. Avrebbe di gran lunga preferito essere lui quello maledetto, il portatore del fardello. Non che volesse essere imprigionato per tutta la vita, con nient'altro da fare che provare ripetutamente a ingravidare l'erede al trono come fosse un passatempo, ma lui era diverso da Trez.

O forse stava prendendo in giro se stesso.

Una sola cosa era chiara: avrebbe fatto tutto quello che doveva per salvare suo fratello.

Ed era pronto a diventare dannatamente creativo.



*    *    *



Nel lasso di tempo in cui Trez era tornato a controllare il salotto privato, Rhage si era svegliato dal coma, trance, pisolino, qualunque cosa fosse stata. E anche se la diarrea verbale di V era stata una vera rottura di palle, al pari del proprietario del club e il ragazzo che aveva attaccato prima, Trez sembrava avesse bisogno di assicurarsi che il Fratello stesse bene.

«Come andiamo?» chiese non appena rientrò.

Quando Hollywood si mise lentamente a sedere, fu subito chiaro che stava cercando di riprendere contatto con la realtà, di ritorno da qualche destinazione mentale lontana dal club.

«Ehi, bella addormentata nel bosco» borbottò V, tirando fuori una sigaretta rollata a mano e un accendino. «Sei tornata?»

«Non si può fumare qui dentro» esclamò Trez.

Vishous inarcò un sopracciglio. «Cosa intendi fare? Buttarmi fuori a calci in culo?»

«Non voglio dover chiudere il locale alla serata di apertura.»

«Hai problemi più grossi rispetto al Dipartimento della Sanità Pubblica.»

Vaffanculo, V, pensò Trez.

«Hai bisogno di qualcosa?» chiese a Rhage. «Ho un sacco di roba che non contiene alcol.»

«Nah, sto bene.» Il Fratello si strofinò la faccia e poi distolse lo sguardo. «Quindi ti sei legato a quell'Eletta, eh?»

«Ho anche da mangiare, se vuoi-»

«Andiamo, amico.» Rhage scosse testa. «Hai appena cercato di battermi.»

Trez guardò di sfuggita l'orologio. «In realtà, è stato più di un'ora fa.»

«Voglio dire, di qualunque cosa si tratti - qual è il problema? Perché non stai con lei?»

«Sei ancora un po' pallido.»

«Okay, okay. Se vuoi metterti in modalità muta, sono problemi tuoi.»

Che. Imbarazzante. Silenzio.

Oh, mio Dio, questa era la più bella notte del cazzo, pensò Trez. Cosa sarebbe successo alla prossima? Un meteorite che colpiva Caldwell?

Nah, probabilmente solo il suo club.

«Allooora... io prendo la droga» esclamò V, intascando i pacchetti di cellophane. «Se ne trovi altra -»

Il terzo maledetto lampo nella stanza fu talmente brillante da accecare, e Trez sollevò un braccio per coprirsi il volto mentre si metteva in posizione difensiva.
«Oh, cazzo!» abbaiò uno dei Fratelli.

Era una bomba? Una tremenda rappresaglia degli assassini?

L'impianto elettrico difettoso che saltava in aria su scala epica?

O forse non avrebbe dovuto fornire all'universo un suggerimento riguardo alla cosa della meteora.

Quando Trez sbatté le palpebre e le macchie nel suo campo visivo sparirono, fu chiaro che non si trattava di nessuna delle possibilità paventate poc'anzi.

Una figura stava ritta in piedi dove c'era stata la grande esplosione di luce - una figura impressionante quanto uno gnomo da giardino stile gotico. Qualunque cosa fosse era alta un metro e venti, coperta dalla testa ai piedi da una tunica nera... e con un'evidente fonte di illuminazione: da sotto l'orlo, traspariva una luce brillante. Come se La Perla si fosse trasferita a Las Vegas e facesse lo strip là sotto.

All'improvviso, Trez smise di respirare e mentre faceva due più due si avvicinò all'impossibile. Porca puttana, che fosse la -

«Ciao, mamma» esordì Vishous seccamente.

- Vergine Scriba.

«Sono venuta per un compito.» La voce femminile era dura come il cristallo e altrettanto chiara. «E deve essere eseguito.»

«Ma davvero.» V prese una lunga boccata dalla sigaretta rollata a mano. «Hai intenzione di rubare le caramelle a un bambino? O è la notte di prendi-a-calci-un-cucciolo?»

La figura voltò le spalle al Fratello. «Tu.»

Trez si ritrasse, sbattendo la testa contro il muro. «Chiedo scusa?»

«Si presuppone che tu non debba rivolgere domande a  Lei» sbottò V. «Per tua informazione.»

«Io?» ripeté Trez. «A cosa ti servo?»

«Sei stato convocato da una delle mie figlie.»

«Conti di portarlo a Disneyland?» mormorò V. «Beato te, Trez - ma Lei probabilmente è in rapporti stretti con Malefica, Dr. Facilier, Crudelia -»

«Come mai conosci così bene tutta questa merda della Disney?» lo interruppe Rhage.

«Vieni con me» disse la Vergine Scriba, stendendo il braccio avvolto dalla veste.

«Io?» sbottò Trez una terza volta.

«Sei stato convocato.»

«Selena...?» mormorò.

Rhage scosse la testa. «Devo tirare fuori i marshmallow? Perché stai per essere abbrustolito a causa di tutte queste domande, amico.»

Fu l'ultima cosa che Trez sentì prima che un vortice di energia lo avvolgesse e lo portasse Dio solo sapeva...

...dove.

Poiché la sensazione di essere stato trasportato era scomparsa, con un grido Trez si raddrizzò, entrambe braccia estese ai due lati, la testa gli girava talmente da fargli pensare a una trottola che sta per cadere.

Un'improvvisa consapevolezza di ciò che lo circondava mise fine a tutto.

Parcolandia. Era stato trasferito in una specie di cartolina raffigurante un parco perfetto, verdi prati erbosi intervallati da alberi dalle chiome folte, aiuole traboccanti di fiori in sboccio e, in lontananza, costruzioni di marmo bianco in stile greco-romano. Tranne l'orizzonte tutto gli sembrava sbagliato. Una foresta delimitava una verde distesa lussureggiante, ma c'era qualcosa di innaturale in tutto quello, gli stessi alberi sembravano segnare la superficie, come se la natura ripetesse uno schema prestabilito. E in alto, anche il cielo era tutto sballato, la sua lattea luminosità sembrava non avere una fonte distinta, come se ci fosse solo un'enorme luce fluorescente lassù.

«Dove mi trovo?» Quando non ci fu risposta, si guardò attorno. La piccola figura infagottata se n'era andata.

Fantastico. Cosa avrebbe fatto adesso?

Più tardi, si sarebbe chiesto cosa esattamente lo fece girare e iniziare a camminare... e poi correre. Un rumore? Il suo nome? L'istinto...?

Trovò il corpo sul lato opposto di una salita nel terreno ondulato. Chiunque fosse era a faccia in giù, indossava il tradizionale abito delle Elette, le suole del sandali - «Selena!» gridò. «Selena...!»

Fermandosi in scivolata, Trez cadde in ginocchio. «Selena?»

I suoi capelli neri erano un disastro, le ciocche avvolte a formare lo chignon erano sciolte e arruffate, e le cadevano sul viso. Quando lui sollevò il groviglio, si accorse che la pelle della femmina era bianca come carta.

«Selena...» Non era sicuro se lei fosse ferita o se avesse perso i sensi, e senza alcuna formazione medica, non aveva la minima idea di cosa fare.

«La respirazione, stai respirando?» Appoggiò l'orecchio sulla sua schiena. Poi si chinò su di lei e le afferrò il braccio per verificare la presenza di -

«Oddio.»

L'arto era rigido, come se fosse in atto il rigor mortis. Solo che... quando poggiò due dita sulla parte interna del polso, si accorse che c'era battito.

Selena gemette e il suo piede si contrasse. Poi la testa scattò contro l'erba.

«Selena?» Il cuore gli batteva così forte che riusciva a malapena a sentire qualcosa. «Cos'è successo?»

Non c'era alcuna ragione per chiedere se stava bene. Era un clamoroso no del cazzo.

«Sei ferita?»

Altri gemiti, come se stesse lottando contro qualcosa.

«Adesso ti volto.»

Preparandosi, la prese per un braccio e provò a spostarla - ma dovette fermarsi. La sua posizione non era cambiata, gli arti sagomati e il torso teso erano rigidissimi, era come se avesse a che fare con una statua di pietra -

«Oh merda!»

Al suono della voce di Rhage, Trez sollevò di scatto la testa. V e Rhage si erano materializzati dal nulla, e per quanto gli fossero sempre piaciuti quei due, in quel momento, avrebbe potuto baciarli.

«Dovete aiutarmi» abbaiò. «Non so cosa ci sia che non va in lei.»

I Fratelli si inginocchiarono e Vishous toccò il polso, in cerca del battito.

«Sembra che non possa muoversi. Ma non so il perché.»

«C'è battito» mormorò V. «Sta respirando. Merda, ho bisogno della mia attrezzatura.»

«Possiamo portarla... dove cazzo siamo?» chiese Trez.

«Sì, posso trasportarla -»

«Nessuno la toccherà a parte me» sentì se stesso ringhiare.

Quel promemoria non era di certo un bene in quella situazione. Tuttavia, al maschio legato in lui non fotteva un cazzo.

La conversazione si srotolò tra i Fratelli, ma che fosse dannato se avesse sentito una singola parola. Il suo cervello incespicava su se stesso, frammenti degli ultimi due mesi si insinuavano mentre provava a cercare segni di cosa non andasse in lei.

Non c'era stato nulla che lui avesse visto, o afferrato come chiacchiera da corridoio. Se avesse soltanto perso i sensi, sarebbe stata in conseguenza all'avere offerto eccessivamente la sua vena, ma questo non avrebbe spiegato perché il suo corpo si fosse irrigidito in quel modo - sembrava si fosse letteralmente trasformata in pietra.

Qualcuno gli diede un colpetto sulla spalla. Rhage.

«Dammi la mano.»

Trez stese il palmo e si sentì tirare in piedi. Prima che potessero parlargli, disse: «Devo portarla io. Lei è mia.»

«Lo sappiamo» disse Rhage con un cenno del capo. «Nessuno la toccherà senza il tuo permesso. Dobbiamo tirarla su - poi V vi riporterà entrambi indietro, va bene? Andiamo adesso, solleva la tua femmina.»

Le braccia di Trez tremavano così tanto che si chiese se sarebbe stato in grado di tenerla tra le braccia. Ma non appena si abbassò, un profondo senso di risolutezza spazzò via tutto il nervosismo e il tremore. L'obiettivo di condurla alla clinica del centro di addestramento gli diede una potenza fisica e una lucidità mentale che non aveva mai provato prima.

Sarebbe morto nello sforzo.

Dio, lei pesava così poco. Meno di quanto ricordava.

E sotto la veste sentiva le ossa dure, come se stesse deperendo velocemente.

Poco prima che l'effetto vorticoso lo invadesse ancora una volta, i suoi occhi si spostarono su una fila fitta di alberi tarchiati interrotta da un traliccio. Sul lato opposto dell'arco, c'era una specie di cortile in cui statue di marmo raffiguranti delle femmine in varie pose erano innalzate su dei pilastri.

Se quella fosse stata la sua strada?


Per qualche ragione, la vista di quelle statue lo terrorizzò fino al midollo.